martedì 29 settembre 2015 - Giovanni Graziano Manca

Bob Dylan: poesia e musica di uno dei grandi del nostro tempo (pt.1)

La sua musica è sempre carica di pathos perché lui, lo si creda o no, è sempre vivo e vegeto. Magari non veste più le camicie da lavoro, come quella che porta sulla copertina di The times they are a changin’. Magari non guida più la motocicletta. Ma se le sue parole graffiano meno che in passato la voce è pur sempre quella, sabbia e colla (l’immagine calzante sul tono di voce di Dylan è di David Bowie), e le sue canzoni colpiscono ancora nel profondo. Mica tanto facile, però, parlare oggi di Bob Dylan, uno dei grandi del nostro tempo: chi, come me, si nutre da molti anni delle sue canzoni e della sua poesia lo fa con cautela e con molto rispetto: tutt’altro che remoto, infatti, è, in questi casi, il rischio di cadere nella retorica, nel vuoto sentimentalismo o, peggio ancora, nel banale.

Tuttavia credo che il rischio cui accennavo debba essere corso nella considerazione del fatto che Mr. Robert Allen Zimmermann (settantaquattro anni compiuti a Maggio e una cinquantina di dischi all’attivo) è ancora personaggio assai discusso e artisticamente attivo. Certo, la maggior parte di coloro che iniziano ad ascoltare Dylan solo oggi, i nuovi eserciti di ascoltatori giovani, per lo più, di ciò che di meglio in passato ha prodotto in termini musicali o lirici questo straordinario artista che ha influito sulla cultura e sul costume dei giovani di varie generazioni come i Beatles o i Rolling Stones o Elvis Presley, hanno, anche per ovvii motivi anagrafici, un’idea molto approssimativa. Shadows in the night, l’ultimo disco di Bob, è uscito all’inizio del 2015 e ci presenta l’uomo del Minnesota nelle vesti, pensate, di crooner, allineato ai dettami della migliore tradizione canora statunitense dei Bennett, Sinatra, Darin e così via.

Ma andiamo con ordine: come tanti della sua generazione Bob Dylan iniziò a suonare nella seconda metà degli anni cinquanta; inizialmente attratto dalla musica dei grandi interpreti di rock’n’roll e di musica nera, prese ad interessarsi e a ispirarsi molto presto ai cantanti di musica folk come Cisco Houston, Pete Seeger, ‘Rambling’ Jack Elliott, e Woody Guthrie, soprattutto, popular singers che con la chitarra in spalla e viaggiando nei vagoni merci giravano per il continente americano facendo sentire la propria voce cantando canzoni di lavoro e giustizia sociale che avevano ad oggetto le misere condizioni di vita, le stesse che anche John Steinback raccontò nei suoi romanzi, di chi visse sulla propria pelle la grande depressione degli anni Trenta del secolo scorso. La complessa e variegata carriera artistica di Dylan andrebbe idealmente suddivisa in almeno sei o sette periodi diversi, ciascuno dei quali è caratterizzato da eventi artistici peculiari o da vicende che si inseriscono nel percorso esistenziale più intimo del cantautore di Duluth.

Il primo periodo è quello dei dischi folk e delle canzoni dal contenuto ‘politico’ registrate con un equipaggiamento tecnico e strumentale (voce-chitarra-armonica) minimale. Impossibile anche solo pensare di dimenticare, tra le canzoni di questo primo periodo, brani come Blowing in the wind, Masters of war, The ballad of Hollis Brown, The times they are a-changin’, queste ultime due tratte dall’album del 1963, forse il più sofferto e genuino tra i dischi folk del primo Dylan. Il disco The times they are a-changin’ ci presenta un Dylan inquieto ad iniziare dall’immagine utilizzata per la realizzazione della copertina che lo ritrae in una espressione, sua tipica peraltro, corrucciata. In Ballad of Hollis Brown Dylan canta versi tragicamente realistici che non hanno necessità di commenti:

Hollis Brown/stava fuori città/con la moglie e cinque figli/gli serviva lavoro e denaro/ma la sua strada era dura/i tuoi bambini sono così affamati che non sanno più sorridere/…/la tua erba è diventata nera/non c’è più acqua nel tuo pozzo/hai speso l’ultimo prezioso dollaro/per sette cartucce di fucile/…/sette colpi echeggiano/come il frastuono dell’oceano/sette persone sono morte in una fattoria del sud Dakota/da qualche parte lontano/sette altre sono nate…

Il 1964 vede l’uscita del disco Another side of Bob Dylan. Il titolo di questo album è significativo e indicativo del fatto che contiene composizioni dai sofferti contenuti intimistici. I testi di Another side appaiono certamente più inclini alle quotidiane introspezioni dell’artista e si contrappongono a quelli dal contenuto universale, contestatario e ‘militante’ delle uscite discografiche che lo precedono. Saranno proprio queste canzoni (una tra tutte, My back pages) a deludere per la prima volta i seguaci di Dylan affezionati alle sue canzoni di impegno sociale. Ecco le due strofe iniziali di My back pages:

fiamme cremisi legate alle mie orecchie/srotolando alte e possenti trappole/piombavano all’improvviso su strade fiammeggianti/usando idee come mappe/ci incontreremo presto sui margini dicevo/fiero e accigliato/ah ma ero molto più vecchio allora/ sono molto più giovane adesso/pregiudizi a metà distrutti balzavano fuori/stracciate ogni odio io gridavo/bugie che la vita è bianca e nera/parlavano dal mio teschio sognavo/eventi romantici moschettieri/con radici profonde non so come/ah ma ero molto più vecchio allora/sono molto più giovane adesso/…

Ma il malcontento dei molti estimatori della canzone cosiddetta ‘di protesta’, che dopo la morte di Woody Guthrie avevano visto in Dylan il nuovo idolo da seguire, era destinato a durare e anzi sarebbe esploso, di lì a poco. Dylan viene contestato duramente subito dopo l’uscita di Bringing it all back home, nel 1965. Bringing it all back home è il disco ‘spartiacque’ che contiene canzoni prevalentemente non acustiche nella prima facciata (sono sette, tra le quali Maggie’s farm e Subterranean homesick blues) e nel secondo lato canzoni dall’incedere folkie quasi a voler rendere meno traumatico possibile il passaggio all’imminente ‘nuovo corso’ elettrico del cantautore, molto più vicine al Dylan delle origini (sono quattro e tutte, con il passare degli anni, sarebbero diventate tra le più amate dell’intero vastissimo repertorio dylaniano: Mr.Tambourine man, It’s all right, mama (I’m only bleeding), It’all over now baby blue, Gates of Eden).

L’evoluzione dylaniana in atto riguarda peraltro non solo la musica ma anche la parte letteraria delle canzoni, le liriche. Sono testi, quelli che Dylan propone nei dischi del biennio, fino al capolavoro del 1966, Blonde on Blonde, intimistici per certi versi (Like a rolling stone, One of us must know, Visions of Johanna, Sad eyed lady of the lowlands) oppure, a seconda dei casi, ironici, graffianti, visionari e per altri versi fortemente in debito con la poesia dei simbolisti francesi (Ballad of a thin man, Highway 61 revisited, Desolation road, Just like Tom thumb’s Blues, Leopard-Skin Pill-Box Hat).

Gli anni 1965-1967 sono focali per l’evoluzione artistica del cantante e preludono ad ulteriori sue radicali svolte artistiche. Certamente influenzarono la produzione musicale e lirica di Dylan la relazione con Joan ‘Johanna’ Baez, il matrimonio contratto successivamente con l’ex modella Sarah Lowndes, avvenuto alla fine del 1965, l’esperienza con gli stupefacenti e il grave incidente motociclistico in cui Bob incorse nel 1966. Il grave infortunio tenne Dylan lontano dalle scene per mesi; Dylan rischiò addirittura di perdere la vita e l’evento avrebbe potuto perpetuare tragicamente il mito di James Dean, stereotipo generazionale dell’artista maudit, bello e dotato di inesauribile talento. In quei pochi anni Dylan riuscì a ritagliarsi uno spazio rispettabile nell’ambito della letteratura americana contemporanea. Oltre ai testi delle canzoni, di Dylan si ricordano gli scritti apparsi sul retro della copertina di alcuni dei suoi dischi e testi poetici come Advice for Geraldine on her miscellaneous Birthday:

stai in linea. stai al passo. la gente/ha paura di quelli che non stanno/al passo con loro. Li fa/sembrar sciocchi a se stessi per il fatto/che loro stanno al passo. potrebbe persino balenargli l’idea che sono loro a sbagliare il passo/non correre e non varcare i confini fissati. se vai/troppo in là in qualsiasi direzione, ti/ perderanno di vista. si sentiranno minacciati. Pensando che non fanno parte di qualcosa che hanno visto passargli avanti, sembrerà loro/che lì sta succedendo qualcosa di cui/ loro non san niente. Coveranno/sentimenti di vendetta. Si metteranno a pensare a come sbarazzarsi di te/…/ quando/ ti trovi in contatto diretto faccia a faccia/fai che si veda quanto/hai bisogno di loro,/la prima cosa che faranno sarà cercare/di obbligarti ad averne bisogno/…/se ti chiedono se ti preoccupi dei/problemi del mondo, guarda nel fondo/degli occhi di quello che te lo/chiede, non te lo chiederà mai più ./…/guardati dalle pareti dei bagni su cui non hanno scritto./…

Quelli di Dylan sono scritti dall’incedere apparentemente sconnesso e delirante e a pieno titolo possono essere accostati alle opere di scrittori e poeti ‘beat’ come Kerouac, Corso, Ginsberg, Ferlinghetti. Densi di simbologie che mettono a nudo paranoie e tormenti di un artista che vive problematicamente il suo mito, si calano all’interno di una complessa, contraddittoria e mutevole realtà sociale di una irrepetibile temperie americana di metà anni Sessanta. Tarantula, rigurgito letterario scritto da un Dylan ventitreenne e uscito in volume nel 1971, è un libro di composizioni non ben definibili che stanno tra la prosa e la poesia; un caleidoscopio di personaggi inquietanti nei confronti dei quali il poeta americano sembra avere ben poche difese:

crow jane dal matrimonio nel nido della bestia dove il selvaggio peter il greco & ambassador frenchy praticano un culto primitivo con hustling john da coney mettendosi in posa & danzando il velluto rosa-tutto arte drammatica & stranamente appartenente al gobbo armeno che assomiglia ad arthur murray & è molto spento & si busca la sifilide & crow jane, lei si sente depressa mentre guarda ma parla come una campionessa & non le va di scherzare…

Scrive Andrea d’Anna, che ha tradotto il libro:

l’ermetismo di ampie sezioni, come l’enigmatica ouverture, è tale da far pensare alle vecchie parole in libertà dei nostri futuristi, a una sorta di scrittura automatica o a un oltraggio dada alla letteratura. Ma i testi più disarticolati di questo ‘manoscritto incubo’ – per usare un’espressione dello stesso autore -, dove la sintassi appare sconvolta e i periodi si trascinano, si contorcono e smaniano come tarantolati, sono qualcosa di più: sono messaggi in codice, diretti a chi fa parte del suo mondo e della sua generazione.

Intorno alla metà degli anni Sessanta Bob Dylan comincia a collaborare con un gruppo di musicisti chiamato Levon & The Hawks che successivamente avrebbe assunto il nome di The Band. Con gli Hawks Dylan affronterà i concerti del tanto contestato tour inglese del 1966; il gruppo di Robbie Robertson sarà accanto a Bob anche successivamente, durante il catartico ritiro nella sua casa di Woodstock.

Leggi la seconda parte




Lasciare un commento