mercoledì 15 marzo 2023 - raffaele ganzerli

Bestiari e stravolgimenti lessicali nel processo Pacciani

Tra i vari motivi che fanno del processo a Pietro Pacciani uno dei casi giudiziari, ancora oggi, più seguiti dal pubblico c’è sicuramente il colorito lessico. E’ un composto di vernacoliere, bestiari e stravolgimenti lessicali sui generis tipico di quei personaggi folkloristici che animano le piazze della provincia fiorentina con le loro storiacce.

L’arma della caricatura animalesca è spesso utilizzata dal Pacciani contro i suoi accusatori, un tipico riflesso difensivo di quella mentalità contadina legata al mondo delle superstizioni, dove il confine tra realtà e forme di rappresentazione simbolica non conoscono distinzione.

Ecco allora che una delle testimoni che raccontano maldicenze sul conto del contadino di Mercatale riceve l’epiteto di “Gruga”: “La chiaman la Gruga perché ha il collo torto sempre fuor dalla finestra a scortar le chiacchere della gente…”. Che tipo di animale sia veramente questa Gruga è argomento dibattuto persino tra i commentatori fiorentini: chi afferma trattarsi della gru, altri propendono per la tartaruga o addirittura il piccione.

Il teste Lorenzo Nesi, uno dei maggiori accusatori di Pacciani e relativi compagni di merende, viene ritratto come la “Ciuca”, la somara: “Biascia così” e davanti alle telecamere dell’aula giudiziaria ne imita suoni e fattezze secondo i canoni del vernacoliere.

Il soggetto più vessato dai suoi turpiloqui è senza dubbio Maria Antonia Sperduto: l’aula si trasforma in un improvvisato teatrino di paese quando Pacciani reagisce di soprassalto all’ accusa, relativamente modesta, di essere stato in passato un turbolento corteggiatore. La donna viene stigmatizzata dal Pacciani per la sua performance ballerina alla festa dei cacciatori di Montefiridolfi. Avrebbe mostrato, secondo il contadinio di Mercatale, una grazia ballerina come quella del “salto di capretto”. Quanto basta per destituitire l'accusatrice del suo presunto potere ammaliante.

Ma arrriva anche il colpo di grazia gettato quasi con nonchalance a conclusione dell’impetuoso intervento: “La mollai anche perché la puzzava peggio della volpe, come una bubbola!”. Si tratta di un’espressione in voga nella città del giglio. La bubbola, al di là dei confini dell’Arno, non è altro che l’Upupa: uccello dal becco lungo e dal proverbiale fetore.

Appartengono invece alla sfera del linguaggio individuale esclusivo del contadino di Mercatale storture linguistiche come Pinochef. Ovvero un tentativo andato storto di nominare il dittatore cileno; il riferimento è al famoso quadro “sogno di fattascienza” oggetto di contestazione da parte della procura per richiami simbolico-esoterici in qualche modo correlabili alle malefatte del Mostro di Firenze.  

Nel quadro delle deformazioni lessicali rientrano le “intercettazioni canore” che comunque rendono l’idea di cosa possono essere, ed il Metador rielaborazione paccianiana di Metal Detector.

Concludiamo con una nota linguistica curiosa legata all’arcaica parlata fiorentina che nell’aula viene profusamente utilizzata anche in ragione del bassissimo livello culturale dei chiamati in causa. In tal senso Mario Vanni, a cui va riconosciuto il merito di aver arricchito la lingua italiana con la locuzione “compagni di merende”, è l’uomo giusto. I non fiorentini avranno notato che durante il processo usa allocuzioni verbali di fiorentino stretto. Ecco che notiamo l'uso del verbo "partire" inteso come tagliare, "principiare" per dire iniziare e "mandare" nel senso di guidare. Davanti al giudice giustifica il possesso di un coltellaccio asserendo che “l’è n’coltello per partì ippane” oppure per giustificare i suoi movimenti in autobus “Un so bono a mandare la macchina”.

Insomma anche in un processo dove la cultura non sembrerebbe essere di casa c’è comunque da imparare.




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