lunedì 14 gennaio 2019 - Phastidio

Banca Popolare di Bari: destino cinico e la resa dei conti

Ieri l’agenzia Reuters ha scritto che la Banca Popolare di Bari si accingerebbe a varare un robusto aumento di capitale, quantificato in mezzo miliardo, di cui 300 milioni in nuove azioni e 200 milioni di prestito subordinato. I numeri non sono stati confermati dalla banca, che tuttavia conferma il rafforzamento patrimoniale a valle del nuovo piano industriale, a cui sta lavorando il nuovo/vecchio capo azienda, Vincenzo De Bustis, e che trasformerà la banca in SpA.

Qui non c’è una vera notizia, nel senso che la ricapitalizzazione era lungamente attesa, visti i livelli di crediti deteriorati. La notizia starebbe nel fatto che le nuove azioni dovrebbero essere offerte senza diritto di opzione agli azionisti esistenti, che quindi sarebbero ferocemente diluiti. Ma anche questa, a ben vedere, non è una notizia perché l’aumento sarebbe comunque stato fortemente diluitivo.

E quindi, quale sarebbe la notizia? Ci sto ancora riflettendo ma non la trovo. Nel senso che parliamo di una banca che da molto tempo è nei radar di chi segue le vicende del credito in Italia. Lo è soprattutto per il perdurante equivoco sulla sorte degli azionisti esistenti, che da tempo tentano di vendere le loro quote ma non trovano compratori nemmeno a prezzi di saldo (o meglio, di stralcio).

Anche la creazione di un mercatino (HI-Mtf), dove da tempo si tenta una improbabile price discovery ma con le rotelline stabilizzatrici delle bici per bimbi, o le sbarre dei letti dei medesimi infanti, per non traumatizzare gli azionisti, non ha prodotto benefici. Inesorabilmente, decorsi i mesi necessari, la griglia di prezzo viene abbassata ma nessun compratore si presenta. Pare sia perché il prezzo resta ancora troppo alto, chissà.

Di questa triste vicenda scrivo da molto tempo, come potete constatare. Questo epilogo quindi non mi coglie affatto impreparato. Sui numeri che contano, lascio la parola a Gianluca Paolucci, che oggi ne scrive su la Stampa:

L’istituto ha perso 139 milioni nei primi sei mesi del 2018, mentre nel bilancio 2017 avvisava di aver avuto «difficoltà» a reperire risorse finanziarie sul mercato.

Cosa che non è che lasci sbigottiti, viste anche le metriche sui crediti deteriorati:

Al 30 giugno, i crediti deteriorati lordi erano pari a più di un quarto del totale dei crediti (2,571 miliardi contro 7,04 in bonis). Il tasso di copertura totale era pari al 39,1%, contro una media vicina al 50% per Carige. Le sofferenze, ovvero i crediti deteriorati di peggiore qualità, avevano un tasso di copertura al 58,9%.

L’emissione obbligazionaria subordinata rende ad oggi circa il 23% ma i volumi scambiati sono pressoché inesistenti. Sull’istituto pesa anche la zavorra dell’acquisizione della dissestata Tercas, che Banca d’Italia decise di mandare in sposa alla banca barese malgrado quest’ultima non si sentisse già troppo bene, in termini di copertura dei crediti, ma troppo forte era il richiamo a diventare “polo aggregante” creditizio nel Mezzogiorno. Ma anche un caso in cui si dovrebbe cambiare un celebre detto, trasformandolo in “far di necessità, vizio”.

Ma non c’è solo questo incidente travestito da ambiziosa opportunità, per la banca della famiglia Jacobini. Leggiamo quello che a novembre scriveval’Aduc, associazione consumerista:

Nel 2011, la Banca Popolare di Bari partecipò, assieme ad altri istituti, alla ricapitalizzazione della poi fallita Cassa di Risparmio di Ferrara sottoscrivendo nuove azioni per un importo di 4,037 milioni di euro. Carife aveva bisogno di 150 milioni ma non riuscì ad ottenerli tutti dal mercato, domandando aiuto agli istituti amici. Pochi mesi dopo, la Cassa di Risparmio di Ferrara ricambiò il favore partecipando all’aumento di capitale della Banca Popolare di Bari sborsando un analogo importo. Lo stesso giochetto fu attuato con gli altri istituti Banca Valsabbina, Popolare di Cividale e Cassa di Risparmio di Cesena (altro istituto finito male). In parole povere, la Popolare di Bari partecipò ad una sottoscrizione reciproca di azioni vietata dalla legge perché consiste in reciproco aumento di capitale che non fa crescere il patrimonio effettivo dei soggetti interessati.

Quindi carta contro carta, e vai sereno. In mezzo a tali e tante angustie, vi fu però anche la felice vicenda dei soci riusciti a vendere le proprie azioni al massimo storico di 9,53 euro, trovando come compratore il gruppo assicurativo Aviva, che aveva stretto con la popolare pugliese un accordo di distribuzione di prodotti assicurativi che, non si sa per quale motivo, implicava anche l’assunzione di una partecipazione azionaria. Meno di un mese dopo questo passaggio di mano di azioni, l’assemblea ratificava il nuovo valore delle medesime, decurtato del 20%.

Come andrà a finire? Lo scenario cosiddetto benigno è piuttosto ben delineato: aumento di capitale, ingresso di altra banca, uscita della famiglia oggi al controllo, requiem per tutti gli attuali azionisti. Solo che non sta scritto da nessuna parte che si reperiranno nuovi soci in termini così indolori (si fa per dire).

L’occasione è dunque propizia per riascoltare e rileggere tutto il copione delle italiche lamentazioni: la Puglia e Bari non possono perdere la loro amata banca del territorio, che così bene ha fatto sinora; squillino le trombe ed entri lo Stato! Avremo così una nuova banca che “presterà a famiglie e imprese”, miei cari compatrioti.

Leggeremo poi anche il solito copione: a chi la cessione delle sofferenze? A noi! No allo Straniero che lucra, sia maledetto. Presto, facciamo entrare la SGA del Tesoro, che non ha fretta di arricchirsi e può strapagare le sofferenze tipiche pugliesi, che difenderemo davanti al mondo. Basta con questa fretta e questo maledetto mercato di speculatori: calma, calmiere e gesso! Facciamo come Atlante col suo pacioso ritorno promesso del 6%. Ah no, aspetta…

In effetti, proprio quella pazienza che ha sinora pesantemente ostacolato la piena emersione dei crediti inesigibili, tenuti amorevolmente sotto il tappeto per non esporli alle brutalità del mondo globalizzato. Dallo slow foodagli slow Npl, in pratica. E comunque è colpa di tedeschi e francesi, con le loro banche e i loro titoli tossici, si sappia.




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