venerdì 18 agosto 2017 - Oggiscienza

Bahamas: dai maiali nuotatori una lezione su turismo e fauna selvatica

Morti dopo aver ingerito alcol, cibo umano e sabbia. I maiali di Pig Beach potevano dare il via a un turismo più consapevole, ma non si vedono cambiamenti all'orizzonte.

di Eleonora Degano

 

Oggi a Pig Beach vivono tra i 10 e i 15 maiali. Crediti immagine: cdorobek, Wikimedia Commons, CC BY 2.0

SPECIALE AGOSTO – Sull’isola corallina di Big Major Cay alle Bahamas, più famosa tra i locali e non come Pig Beach, vive da 30 anni una delle “attrazioni turistiche” più particolari e romanzate delle isole tropicali. Una colonia di maiali che oggi conta tra i 10 e i 15 suini facili da osservare mentre nuotano nelle acque che circondano l’isola, abitata anche da una manciata di gatti e capre. Ogni giorno da Nassau, la capitale delle Bahamas, partono innumerevoli escursioni che portano fiumi di turisti a fotografare i maiali e a nuotare insieme a loro.

Intorno alla presenza di questi suini si è detto di tutto: c’è chi vuole siano stati portati alle Bahamas da alcuni marinai con l’intento di mangiarli in un secondo momento, che non è mai arrivato. Secondo altri i maiali sarebbero arrivati nuotando da un’altra isola vicina, sarebbero sopravvissuti a un naufragio o ancora farebbero parte di un piano turistico studiato a tavolino, per attirare più visitatori sul distretto di Exuma di cui fa parte Pig Beach (e che conta oltre 350 isole), oggi presentata come una delle maggiori attrazioni.

Per anni i maiali hanno prosperato: sull’isola di Big Major Cay c’era una fonte d’acqua naturale e il cibo non mancava; stando a quanto raccontano gli abitanti del luogo trascorrevano gran parte del tempo nella lussureggiante foresta di casa loro e solo ogni tanto si spingevano a nuoto vicino alle barche o verso le spiagge più turistiche, alla ricerca dell’occasionale spuntino lanciato dai turisti o dei rifiuti alimentari abbandonati sulla sabbia. Ma l’equilibrio a un certo punto è venuto a mancare e pochi mesi fa i maiali di Pig Beach sono finiti su tutti i giornali: quasi metà della colonia era stata trovata morta, gli stomaci degli animali pieni di sabbia.

Abbiamo detto infatti che di maiali ce ne sono oggi 10 o 15, quasi tutti adulti, ma fino a qualche tempo fa la colonia ne contava più di 20. Poi l’intenso turismo che riguarda queste isole ha chiesto il conto.

Secondo le indagini svolte dalla Humane Society, la più grande associazione statunitense per la protezione degli animali, a mettere in pericolo gli animali e causarne la morte sono stati più fattori. Se nutrire la fauna selvatica è generalmente sconsigliato, gli spuntini dei turisti si erano fatti negli anni sempre più un’abitudine e i maiali non abitavano quasi la foresta. Sempre più spesso si spingevano sulla costa per ricevere non solo cibo umano ma birra, rum, alimenti e bevande di ogni tipo.

Proprio l’alcol sembrava, all’inizio, la principale causa della loro morte. Insieme a quanto trovavano sulla spiaggia, piccoli frammenti di cibo, i maiali ingerivano anche grandi quantità di sabbia, il che spiegherebbe il contenuto dei loro stomaci. In un secondo momento, gli esperti che hanno analizzato i corpi dei maiali hanno detto che probabilmente è stata questa la causa primaria. Dopo accurate perlustrazioni dell’isola il personale della Humane Society ha anche scoperto che la fonte d’acqua naturale dove i maiali potevano abbeverarsi era ormai pressoché prosciugata, dopo mesi di clima particolarmente e atipicamente secco. Anche questo ha contribuito a spingerli sulla costa, verso cibo e bevande facili.

 

Crediti immagine: cdorobek, Wikimedia Commons, CC BY 2.0

Fino all’evitabile morte di metà dei maiali non si era mai parlato di limitare il contatto con questi animali: i locali si erano sempre affidati al buonsenso dei turisti e degli operatori turistici dell’arcipelago, la maggior parte dei quali arriva in prossimità dell’isola in barca e legalmente, senza nessun controllo, libera di avvicinare i maiali, di fotografarli, di nutrirli. Gli stessi tour operator dell’arcipelago, dopo il ritrovamento degli animali, hanno detto di essere a conoscenza del fatto che molti marinai davano alcol ai maiali ma che quel comportamento sconsiderato non era da estendersi a loro.

Oltre alla tutela degli animali, è nell’interesse anche dell’industria turistica che i maiali prosperino, continuando ad attirare visitatori come hanno sempre fatto, contribuendo al sostentamento dell’arcipelago. Ma è ora che qualcosa cambi: dopo la loro morte si è iniziato a parlare di limitare il contatto con i turisti, vietando espressamente di nutrirli. Wayde Nixon è uno dei responsabili dei maiali e dopo l’incidente ha detto che insieme ai colleghi avrebbe fatto il possibile per trovare un accordo con il Ministero del Turismo, per tutelare i maiali e garantire comunque ai visitatori di poterli vedere e fotografare, ma non nutrire.

A guardare il sito web ufficiale del turismo alle Bahamas, tuttavia, sembra si stia andando ancora nella direzione precedente: tra le attività proposte come eco-tours (!) insieme alle uscite in barca per vedere i maiali c’è “nutri le iguane” (la specie Cyclura cychlura, oggi a rischio di estinzione ed endemica del distretto di Exuma), ma anche “accarezza una pastinaca”, “tieni in mano una stella marina”. Si incoraggiano i turisti a toccare gli animali, si portano gli animali ad avvicinarsi sempre di più alla ricerca di cibo umano e la storia, solitamente, si ripete.

Caso vuole che proprio queste iguane, nel 2015, sono state tra i protagonisti di uno studio sugli effetti del cibo umano sulla fauna selvatica: l’ecologo Daniel Beker e i colleghi riportavano che i turisti in vacanza alle Bahamas danno da mangiare acini d’uva alle iguane, un alimento non presente nella loro dieta e che ha compromesso le condizioni di salute degli animali. Sono aumentate, in particolare, le infezioni causate dal parassita anchilostoma.

Quella dei maiali delle Bahamas? È una storia importante. Ci ricorda quanto la nostra presenza abbia un impatto sugli animali selvatici anche quando sarebbe evitabile e che è la domanda del turista a influenzare l’offerta: se volete toccare gli animali selvatici, veicolando patogeni, cambiandone il comportamento, osservandoli in condizioni tutt’altro che naturali, è questo che troverete una volta scesi dall’aereo.

E non è un modo di dire: secondo un’indagine del 2015, il turismo legato alla fauna selvatica è tra il 20% e il 40% del turismo totale, con picchi che arrivano ai sei milioni di visitatori. Ma basandosi sulle recensioni lasciate su piattaforme come Tripadvisor, l’80% dei turisti non si rende conto quando un’attrazione non considera affatto la salute e il benessere degli animali. Il caso del controverso Tiger Temple thailandese, dal quale molti turisti hanno portato a casa perfette fotoprofilo per Facebook insieme a una tigre gestita come fosse un peluche, ha molto da insegnarci.

@Eleonoraseeing




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