venerdì 23 aprile 2010 - Paolo Maria Coniglio

Baby gang e bullismo: due fiori cresciuti male

Partono da un terreno paludoso le radici che hanno fatto sbocciare il fenomeno delle baby gang, la cui inaudita e disarmante violenza, attanaglia le nostre città. Stati Uniti d’America, anni settanta. Gruppi sciolti di afro americani decidono di farsi giustizia da soli contro i soprusi perpetrati loro dalle forze dell’ordine. Giustificano così, i leader dei gruppi di quartiere la nascita delle prime baby gang che iniziavano così ad impossessarsi delle strade. I gruppi più tristemente famosi sono i Crips di Los Angeles che hanno ucciso anche nella Grande Mela, i Bloods californani e i Bloodhound Gang gruppo rapcore statunitense. Bande rivali che spesso si sono scontrate, anche tra loro, per assurde questioni di possesso di territorio. Come piccoli ma determinati eserciti, anche loro adottano modi particolari di vestire come a voler indicare un’uniforme di distinzione che infonda terrore e rispetto. Così capi di abbigliamento, colori di riferimento, accessori, bandane, cappellini da baseball, camicie a sacchi e scarpe sportive sono le loro divise di ieri.

Baby gang e bullismo: due fiori cresciuti male

 
La tradizione nella sostanza non è di molto variata, si indossano ancora giubbotti e cappelli delle squadre dei college, ma a testimoniare l’appartenenza alle gang sono i tatuaggi e le azioni clamorose di violenza, i cori e gli inni che erano la colonna sonora indispensabile ai componenti della gang, oggi sono state soppiantate dalle riprese in diretta delle loro rapine, atti vandalici o maltrattamenti fisici, fino a creare un vero e proprio set rudimentale dei luoghi di esibizione. L’Inghilterra è il paese europeo maggiormente colpito da tale fenomeno. Si è abbassata di molto l’età dei “bulli di strada” dai circa vent’anni di una volta a meno di otto anni di oggi. Si tratta comunque di un fenomeno sociale, legato alla moda e al benessere che crea sempre più noia e desiderio di ricercare il guadagno facile ad ogni costo. Genitori lontani dai figli, occupatissimi nel loro lavoro, distratti dalla carriera e dagli interessi che distolgono l’attenzione dalla famiglia, dai figli che ne pagano il prezzo più pesante.

Senza andare molto lontano, nel nostro apparentemente tranquillo Veneto, scopriamo che a Padova dopo la discussa “barriera antispaccio” per isolare il Bronx della città, ora ci sono anche le baby gang. Un ragazzino della città è stato pesantemente malmenato e derubato del suo telefonino. Il tutto è accaduto perché il giovane non ha dato al capo della gang i sessanta centesimi che lui gli aveva chiesto, probabilmente per comprarsi un pacchetto di sigarette. Ammesso per assurdo che esista una sola ragione al mondo per picchiare uno a sangue, lo si può fare per 60 miseri centesimi?

Un fatto estremamente allarmante è che in Italia ci sono bambini che giocano a dadi e che pagano i loro debiti organizzando la baby-prostituzione. Giuliano Amato dice: «Ho saputo una cosa sconvolgente, che ci sono bimbi che si giocano a dadi centinaia di euro e che poi organizzano la baby-prostituzione per pagarsi i debiti». «Questo accade in Italia, tra di noi, e la politica deve cogliere questi fenomeni. Se non lo fa condanniamo il nostro Paese». Da questa posizione, passare al vero e proprio crimine organizzato il passo è veramente breve. Secondo stime Interpol, in Italia il numero di minorenni sfruttati dal crimine organizzato internazionale oscilla tra 18 mila e 23 mila unità. I reati attuati da questi gruppi sono soprattutto le rapine da strada, i furti, gli atti vandalici, le piccole estorsioni, le violenze tra coetanei.
 
Tra le città maggiormente colpite dal fenomeno ci sono Genova e Milano, dove esistono bande formate principalmente da ecuadoregni e peruviani. Una volta si chiamava banda e andava di nascosto a suonare i campanelli delle case per fare una bravata e provocare la reazione degli adulti. Oggi si chiama baby-gang e svaligia le banche. Più difficile pensare che si tratti solo di spacconate giovanili. La matrice però da cui nascono questi comportamenti provocatori e dirompenti è sempre la stessa. Ha un nome: il gruppo. È nel gruppo che l’adolescente si mette in gioco e verifica le proprie abilità nascenti, la propria forza fisica e quella mentale. Il gruppo consente la scoperta del nuovo, l’esplorazione dei limiti, la conoscenza e il superamento dei confini, la sfida alle regole e ai divieti. Chi fa parte di un gruppo si sente più forte, più capace di trasgredire e verificare la propria tenuta.
 
Trasgressione e ribellione non sono inutili ma motori necessari per andare oltre le Colonne d’Ercole e scoprire se stessi e le proprie energie ma anche per capire e assumersi le proprie responsabilità. A patto che vi sia qualcuno che continui a indicare i confini, a porre paletti e segnare il campo dove si gioca. Il gruppo quindi serve perché offre uno spazio nuovo e diverso da quello della famiglia e ha la funzione di far uscire il giovane dalla dipendenza infantile. La banda così è sempre esistita e anche se disturbava la tranquillità degli adulti non è mai stata un’esperienza anomala, né un vivaio precoce di criminalità e devianza sociale. È stata sempre una palestra dove provare a distaccarsi dai legami familiari. Perché fare azioni di abilità insieme ad altri garantisce quella necessaria copertura emotiva che altrimenti renderebbe tutto più difficile in quanto nel gruppo si perde o si assottiglia la realtà del singolo. Niente di nuovo quindi sotto il sole anche se le “cattive compagnie” sono sempre state un pericolo temuto dagli adulti e un rischio per gli adolescenti. Oggi la banda è una gang, una combriccola che non esprime solo un malessere evolutivo, ma esistenziale.
 
La diversità consiste nel fatto che queste aggregazioni si organizzano sempre più precocemente e si muovono sull’asse di una marginalità relazionale. La povertà non è più quella economica come poteva essere un tempo. Spesso è la punta emergente di un fenomeno in rapida crescita che ancora ci ostiniamo a trascurare e sta fermentando dappertutto: il bullismo. Ovvero un flusso corrente di violenza e aggressività che scorre sommersa già tra i bambini delle scuole elementari, se non prima, e rimane nascosta agli occhi distratti degli adulti. Soprusi, minacce, angherie di questi piccoli “gangster” non di rado sono indicatori inquietanti di relazioni che mancano, di povertà di dialogo e di solitudine affettiva. Che il percorso di maturazione e di individuazione oggi sia più complicato e difficile di ieri è un fatto innegabile. Ma quando mancano i riferimenti e le relazioni familiari sono rarefatte, quando il dialogo stenta ad essere il terreno del confronto o anche dello scontro in ambiente domestico, un adolescente disorientato volge altrove la sua attenzione. Se non viene ascoltato, finisce per non parlare più e per non ascoltare a sua volta. Si rivolge al gruppo che naturalmente accoglie le sue emozioni e ospita le sue fantasie anche quelle più violente. Le azioni, già così caratteristiche di questa epoca, divengono un modo per comunicare e denunciare il disagio che accomuna il gruppo e che la banda esalta. Insieme agli altri un adolescente arrabbiato e disorientato realizza la trama di quel tessuto annodato di sofferenza per un mondo di adulti assenti e lontani.
 
La gang aiuta a combattere il nemico, le sue regole incomprensibili e spesso contraddittorie. Perché all’interno della baby-gang l’emulazione non solo è consentita ma richiesta. Così le prove cui tutti i membri del gruppo si devono sottoporre durante le loro azioni, finiscono per essere il surrogato di quei riti iniziatici che la collettività ha ormai perso o, per gran parte, dimenticato. In fondo il far parte di un gruppo implica l’accettazione e la condivisione degli ideali e l’adolescente, in cerca di conferme, è naturalmente portato a soddisfare chi gli offre queste gratificazioni. Il guaio sta nel fatto che nel corso della crescita questi adolescenti delusi, arrabbiati e insoddisfatti, che si rivolgono al gruppo per scrivere la loro storia, mancano di riferimenti sicuri e stabili. Tutto è vago e possibile. Tutto senza valore, noioso. Manca il senso del limite perché nessuno stabilisce dei confini precisi; manca il senso di legalità e la consapevolezza delle proprie responsabilità perché gli esempi della comunità degli adulti sono spesso deludenti e incoerenti.
 
Non esiste, nel nostro paese, la certezza della pena, anzi gli atti violenti ed efferati di questi ultimi anni, dai fatti di Montecchia di Corsara che vedeva Pietro Maso, massacrare i genitori per soddisfare la sua vanità e sete di ricchezza al caso del piccolo Samuele di Cogne non hanno certamente contribuito a scoraggiare tali disdicevoli pratiche. Dobbiamo anche sottolineare che è anche carente la sensibilità alla sofferenza altrui perché dilaga l’indifferenza dentro e fuori dalla famiglia. Allora la noia, quella sensazione vischiosa di monotonia e di vuoto, diviene una condizione stabile da cui si può uscire solo con gesti eclatanti e sconvolgenti. Si distruggere per rabbia, per frustrazione, per vendetta, per gioco o per nessun motivo. Tra gli psicologi che si occupano dei problemi della fase adolescenziale la maggior parte afferma che sono i genitori la causa principale. Infatti le baby-gang sono formate per lo più da ragazzi con una situazione economica e familiare molto difficile dove spesso sono abbandonati a loro stessi e senza una guida intraprendono una strada sbagliata. I principali bersagli sono i coetanei più fortunati e ricchi di loro e, le opere pubbliche, deturpate dalla mano di questi criminali guidati dal loro disadattamento sociale. Lo stile delle baby-gang è ormai conosciuto in tutta Italia. La modalità delle aggressioni è quasi sempre la stessa. I piccoli gangster adocchiano la vittima. La circondano senza darle alcuna possibilità di reagire, tanta è la disparità delle forze. Prima vengono pronunciati gli insulti, poi le minacce ed infine le botte.
 
Gli “zarri”, così chiamati a Milano, girano sempre in gruppo in modo che la loro unione sia l’arma vincente contro qualsiasi bersaglio. In un futuro prossimo molti ragazzi matureranno e intraprenderanno una strada lavorativa mentre altri, invogliati da enormi cifre in danaro, continueranno la vita malavitosa andando incontro alla legge e al loro destino. I mass media registrano, con sempre maggior frequenza, casi di violenza minorile. L’adolescenza sembra quindi un periodo in cui i giovani tendono a deviare per imboccare la strada della criminalità e sono soprattutto i ragazzi i più soggetti ad atteggiamenti violenti o scontrosi, riscontrabili già dai primi anni di scuola e spesso sottovalutati sia dai genitori che oltre ogni ragionevole evidenza tendono a giustificare e sminuire i comportamenti devianti dei loro rampolli e dagli insegnanti. Differentemente da quanto a prima vista appare, la violenza fra i minori è un fenomeno di vecchia data e non degli ultimi anni. Se un tempo, tuttavia, le imprese di questi giovani erano più tollerate a causa del difficile clima in cui essi le compivano, oggi tali episodi sono più rari e quindi più sentiti. Spesso si richiedono radicali interventi per mettere fine a questi fatti, ma raramente la gente conosce a fondo il problema. Pochi si interrogano su che cosa spinga questi giovani ad agire in modo così violento. Per capire come intervenire per apportare dei miglioramenti, occorre capire cosa è necessario cambiare e quali sono i comportamenti errati che gli adulti hanno condotto per spingere i giovani ad essere accettati meglio dal gruppo che non fra le mura domestiche.



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