giovedì 17 ottobre 2019 - Stranieriincampania

Avventura di Latta: integrazione attraverso l’arte nel laboratorio ad alto contenuto umanitario

Nella chiesa di Santa Maria del Rifugio su via dei Tribunali, a Napoli, l’Associazione Samb & Diop svolge a titolo volontario corsi di lingua italiana dedicati ai migranti, più altre attività come i corsi di preparazione alla licenza media o il corso di lingua inglese. In due locali adiacenti la sagrestia della Chiesa è ospitato il laboratorio artigianale di Avventura di Latta, un progetto nato dall’associazione su proposta del maestro Riccardo Dalisi e realizzato con l’aiuto dell’architetto Marco Cecere.

 Il laboratorio nasce per offrire ai ragazzi stranieri l’opportunità di apprendere le tecniche artigianali di lavorazione del metallo, ma con il tempo è riuscito ad avviare un vero e proprio ciclo di produzione che ha portato alla creazione di collezioni destinate alla vendita o all’esposizione durante mostre e fiere. 

Stranieriincampania ha visitato il laboratorio e ha incontrato Marco Cecere, che si occupa della formazione e della produzione di Avventura di Latta

Ciao Marco, ci racconti come nasce Avventura di Latta?

Nasce come un’iniziativa spontanea durante un evento dell’associazione Samb & Diop, che operava già dal 2011, due anni prima che iniziasse il laboratorio. Erano presenti Riccardo Dalisi, Alex Zanotelli e il Presidente dell’Associazione. Quella giornata era stata organizzata per proporre delle nuove attività a cui far partecipare i ragazzi che permettessero un inserimento lavorativo. Riccardo Dalisi, che è un esperto del settore, aveva già fatto una ricerca nell’ambito del design stando a stretto contatto con gli artigiani di Rua Catalana e aveva curato dei laboratori in ambito sociale con i bambini del Rione Traiano e con i ragazzi della Sanità, propose un nuovo laboratorio di artigianato. Dalisi aveva già sperimentato le tecniche di lavorazione del metallo e dell’ultrapoverissimo, e stava portando avanti una ricerca che adesso andrà in esposizione alla Porto Biennale Design. Si tratta di una retrospettiva dal titolo “La bellezza dell’errore”, che si incentra proprio su questa pratica dell’ultrapovero, ossia la possibilità che viene data all’errore di avere un potere espressivo molto più forte rispetto a quella che è la perfezione della produzione industriale. Quindi è una ricerca di design, ma porta con sé un contenuto sociale molto forte. Dalisi quindi propose di ripartire con una nuova esperienza e mi chiese un aiuto per realizzarlo. Abbiamo iniziato con dei laboratori di un paio d’ore a settimana, non era neanche finanziato. Ci siamo dati da fare, fortunatamente abbiamo trovato persone pronte a darci una mano, anche nel procurarci i materiali. Abbiamo iniziato con dei ciondolini, ma il laboratorio rappresentava anche un momento per stare insieme, creare dei rapporti, grazie alla chiesa che ci dava questo luogo di ritrovo. Era un momento ludico senza nessuna pretesa, neanche quella di fare arte terapia, senza un percorso pedagogico alle spalle. Nel tempo tutto questo si è sviluppato, abbiamo iniziato a fare le prime esposizione in chiesa con degli amici, ma vedevamo che iniziavano a comprare le nostre creazioni. Allora con più calma, ci siamo resi conto che poteva funzionare, potevamo fare anche dell’altro e magari inserirci in qualche mercatino. Abbiamo continuato e c’è stata la possibilità di partecipare al Forum Universale delle Culture come partner di un progetto promosso dall’associazione culturale Intraprendere. Nel progetto proponemmo delle installazioni luminose su via dei Tribunali, per l’esattezza erano sei illuminazioni in ultrapoverissimo. Il bando lo abbiamo vinto e abbiamo realizzato le lampade e le installazioni, successivamente abbiamo fatto anche la presentazione che prevedeva una mostra espositiva ad Intragallery, la galleria d’arte gestita dall’associazione Intraprendere. Diciamo che questa è stata l’occasione che ci ha fatto conoscere all’esterno dell’associazione.

Ci spieghi meglio cosa vuol dire “ultrapoverissimo”?

L’ultrapoverissimo è una tecnica di approccio al manufatto che ha teorizzato Riccardo Dalisi.

Parte dalle materie povere, lavorate a mano. Partendo dall’arte povera, oltre la povertà delle materie prime, c’è anche la semplicità di esecuzione. C’è un aspetto poetico che ha questa imperfezione dell’esecuzione, visto che è realizzato da mani non esperte, senza l’ausilio di particolari macchinari. E’ fatto con le poche risorse che abbiamo a disposizione. In sintesi è un connubio tra la povertà di materiali e la semplicità di esecuzione. 

Tra i vostri propositi c’è quello di fare “integrazione attraverso l’arte”, spiegaci meglio cosa significa?

All’inizio il laboratorio era principalmente rivolto ai cittadini stranieri. Negli ultimi tempi cerchiamo di coinvolgere anche il quartiere e le associazioni di Forcella per aprire le porte alla cittadinanza. Il progetto originale resta l’inclusione dei cittadini stranieri. 

L’arte nel momento in cui è calata in un contesto sociale, sviluppando dei momenti ludici e di confronto, fa emergere anche le potenzialità di chi partecipa al laboratorio. E questo è già un aspetto dell’integrazione attraverso l’arte. Poi c’è tutto l’aspetto del contatto con la persona, lo stare insieme per raccontarsi, creare dei rapporti da cui poi nascono delle amicizie. Questo è anche un modo per approfondire gli aspetti legati alla lingua italiana, imparando a dialogare chiacchierando. Questo è l’aspetto didattico legato alla questione della lingua. Non c’è nient’altro che possa creare inclusione come l’affetto e la stima reciproca. Poi c’è l’integrazione lavorativa, si prova attraverso i contatti a far trovare lavoro ai ragazzi dei corsi di lingua. Questo laboratorio prova a dare gli elementi basilari per poter lavorare il metallo così da entrare in un ciclo di produzione nel momento in cui ci sono delle commesse o arrivano delle richieste particolari. Poi c’è un altro aspetto dell’integrazione che è il rapporto umano con la persona. Quindi nelle attività che proponiamo c’è già la volontà di far nascere dei legami.

L’arte riesce a fare integrazione perché, nel momento in cui inizi a manipolare con le mani i metalli, ad analizzare gli aspetti estetici, ad aver cura della bellezza, si innescano dei meccanismi per cui, attraverso l’arte, si fanno emergere dei lati più profondi del carattere di una persona. Si stimola la vena artistica per far emergere tutta una parte interiore che magari i partecipanti non conoscono. 

E poi c’è l’interazione con le persone esterne, il cliente o il committente, con cui devono interagire per capire cosa vogliono. Partecipiamo anche a dei mercati dove sono loro attivi in prima persona, diciamo che aumentano quelle che adesso si chiamano soft skill. 

La verità è che tutti questi meccanismi che ho spiegato, a furia di fare interviste, o di raccontare cosa facciamo ad altri è come se ce le avessero un po’ inculcate a forza, invece è un meccanismo molto naturale. 

Ti occupi anche della formazione dei nuovi arrivati, come siete organizzati?

Io sarei il loro formatore, ma ho un background differente, nasco come architetto non come artigiano. Sono spinto da una curiosità estrema, ma loro mi seguono in questo. In realtà non so più di loro nel momento in cui le cose le facciamo insieme e lavoriamo insieme sulla sperimentazione. Comunque sì, alla fine quando arrivano ragazzi nuovi sono io che li formo e gli insegno le basi. Poi ho dei buoni colleghi e amici che fanno anche loro da formatori. Abdallah e Sadja mi danno una grossa mano in questo. 

I nuovi arrivati come iniziano la formazione?

Quando vengono per i corsi di lingua gli spieghiamo di cosa si tratta, gli facciamo visitare il laboratorio e poi chi è interessato può venire qui e intraprendere un percorso di formazione. 

Quando imparano e hanno voglia di mettersi in gioco, restano altrimenti possono proseguire questo lavoro altrove. Quando imparano le tecniche, se riescono ad apprendere almeno le tecniche di base, entrano nel processo di produzione. C’è quindi anche questo aspetto lavorativo del laboratorio. L’intenzione è quella di riuscire a creare un’impresa sociale che resti in mano ai ragazzi più bravi, ma è un processo che richiede tempo anche per problemi burocratici. Questa è un’idea che è nata anche dopo sollecitazioni esterne sia al laboratorio che all’associazione, rappresenta il riscontro positivo che abbiamo avuto all’esterno. 

Quali sono le difficoltà che avete dovuto affrontare?

Ci sono stati molto problemi all’inizio per il recupero dei materiali e delle attrezzature, anche perché il laboratorio è una cosa nata dal nulla senza alcun finanziamento. Si è evoluto tutto nel tempo, ma devo dire che è stato anche divertente e ad ogni problema riuscivamo a trovare una soluzione. I problemi principali sono di natura economica. Non avendo sostentamenti siamo autorganizzati, ci auto sosteniamo. Non abbiamo avuto un forte appoggio da parte delle istituzioni e questa cosa mi rammarica. Soprattutto perché poi vedi che all’estero quello che fai viene apprezzato. Per esempio siamo stati invitati alla Biennale in Portogallo organizzata da un’università di design portoghese, non abbiamo inviato candidatura ci hanno chiamato loro. Certo è che il nome di Riccardo Dalisi ci ha aiutato in questo. Stiamo qui facciamo tante belle cose, riceviamo tanti complimenti, ma nel concreto l’appoggio è inesistente. 

Invece qual è la maggiore soddisfazione ottenuta in questi anni?

La maggiore soddisfazione è proprio quella di aver superato tanti problemi insieme. Abbiamo creato dei rapporti, siamo una comunità fatta di persone che condividono gli stessi orientamenti sociali e politici. Ci si racconta ancora degli ideali. Nasce come avventura e continua come avventura in cui ci si trova davanti a situazioni e richieste particolari ed ogni volta bisogna mettersi in gioco. Abbiamo anche partecipato al concorso “Go Sud – Alla ricerca del possibile nei luoghi della cultura“, come una scommessa, poi alla fine abbiamo vinto il concorso con un bracciale e un collier dal nome Iside alata, ispirata alla collezione museale del Mann. 

Mi hai parlato di commesse particolari, quali per esempio?

Noi ci confrontiamo e lavoriamo su delle tematiche per poi realizzare le opere, per esempio su Napoli abbiamo fatto il Vesuvio e la sirena Partenope, questo è anche un modo per far conoscere ai ragazzi la città dove stanno vivendo. Abbiamo realizzato diversi premi per diverse associazioni ed aziende, la cosa più bizzarra, oltre al premio GreenCare che rappresenta una lancia/foglia come oggetto di design, è stata quella di Federcarni che ci ha chiesto di realizzare un premio per i macellai che si erano distinti nel loro lavoro. Immagina di spiegare questa richiesta ai ragazzi del laboratorio. Però alla fine l’idea è venuta fuori, abbiamo fatto un lavoro concettuale insieme ai ragazzi e l’oggetto è stato molto apprezzato. Loro ci avevano chiesto qualcosa che avesse a che fare con una mannaia, per sottolineare il lato artigianale del lavoro, però non volevano che fosse un simbolo di violenza o di crudeltà. Abbiamo dovuto fare tutto uno studio di settore sui coltelli dei macellai e alla fine abbiamo realizzato quest’opera in cui c’è un coltello assemblato attraverso la tecnica antica su cui si poggia una farfalla. Abbiamo creato una contrapposizione tra la forza della lama e la leggerezza della farfalla. 

Per la vostra produzione si parla di “creazioni a contenuto umanitario” cosa vuol dire?

Partiamo dal presupposto dell’ultrapoverissimo. Un manufatto può avere valore perché c’è del valore nella produzione, oppure perché utilizza materiali pregiati, invece noi partiamo dal presupposto inverso: diamo valore alle cose che non ce l’hanno. Diamo valore al materiale povero, prima di tutto mettendo un racconto dietro all’oggetto che deve essere visibile anche a livello estetico. L’aspetto del valore simbolico è dato dal lavoro a livello sociale che c’è dietro, oltre alle capacità tecniche. La cura del piccolo errore che crea ricchezza, infatti nel momento in cui vedi un oggetto perfetto ti risulta sterile, come se non avesse anima, invece il fatto che ci siano delle sbavature, delle saldature a vista, qualcosa che si fa notare, crea un’interazione diversa con l’oggetto da parte di chi l’osserva. Questo meccanismo, secondo Riccardo Dalisi, crea ricchezza donando un maggior valore intrinseco all’oggetto. Una caratteristica che è tipica della produzione artigianale ma che risulta ancora più evidente perché realizzata da mani inesperte. Per qualcuno potrebbe essere una cosa non fatta bene, però diventa una cosa unica che ha bisogno di essere guardata e svelata nel tempo. 

Noi ogni anno realizziamo delle collezioni che ci permettono di sperimentare nuove tecniche e nuove attrezzature che acquistiamo, e poi abbiamo degli oggetti in catalogo che realizziamo normalmente su richiesta. Come detto prima lavoriamo su delle tematiche e realizziamo svariati oggetti. Quest’anno abbiamo lavorato sulla primavera e sui fiori, per Natale stiamo vagliando varie ipotesi ancora. 

Tu insegni loro le tecniche di lavorazione del metallo, invece cosa hai imparato in questi sei anni da loro e da questa esperienza?

Ho imparato la caparbietà, l’ostinazione e la bellezza della semplicità, ma soprattutto la tolleranza. Prima ero molto pignolo e preciso, all’inizio dicevo ci vediamo alle quattro, poi un po’ l’orario napoletano, un po’ l’orario africano, ad un certo punto si è fatto a gara a chi aspettava chi. Ho imparato la tolleranza anche nella gestione del tempo, ognuno ha i suoi tempi che possono essere legati a dei retroscena che non sto qui a raccontarti. 

In questo momento vedo Sejad che mi guarda e pensa “ma questo quando si muove che domani dobbiamo consegnare?”.

Stranieriincampania ringrazia Avventura di latta per la disponibilità e si scusa con Sejad per aver “distratto” Marco.




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