martedì 20 agosto 2013 - Traiettorie Sociologiche

Avanzi di vite sommerse

“Un’economia della rovina, dove la scoria si dà come sua condizione d’esistenza elementare […] Napoli, l’economia della rovina esibita a pieno regime, per restare in Italia.” (Fattori, Fucile, 1988).

A leggere Avanzi, una raccolta di racconti del giovanissimo Pippo Zarrella (FI Editrice, Napoli, 2013) viene in mente questa frase, ormai d’epoca, che esprimeva una condizione – ancora quella del post-terremoto – che era facile prevedere come destinata a diventare cronica, endemica, trasferendosi dallo stato delle cose materiali e della dimensione della vita quotidiana di larghi strati della popolazione della città alla loro condizione umana, interiore, emotiva più in generale.

Forse più difficile era, allora, apparentare questa dimensione – la catastrofe delle vite, dei progetti di vita, delle speranze – a quella di aree sempre più vaste dell’intero globo, abituati ad un’idea di Napoli come territorio unico, inimitabile, luogo di vite ed eventi definiti da tratti irriproducibili, irripetibili (cfr. Tarantino, 2012). Pure, eravamo alla fine degli anni Settanta, e la consapevolezza e la memoria delle condizioni disastrose, disumane di vaste aree di quello che chiamavamo “terzo mondo” erano ancora ben vive, presenti, tangibili. 

Uno dei meriti di Zarrella è invece, credo, proprio quello di mostrare quanto la vita quotidiana dei napoletani assomigli a quella degli abitanti di tante aree del pianeta, viventi, alcuni dalla nascita, in una dimensione di guerra permanente, eterna, per dirla con Alan D. Altieri (2006-2008), di disagio, di sofferenza, di dolore, partendo nella definizione della sua mappa narrativa da Napoli per spostarsi in Palestina e poi altrove, nei vari luoghi dove la vita dei molti è spesso uno scarto di produzione, nel migliore dei casi un semilavorato, materia accessoria utile per imbastire e nutrire conflitti e apocalissi.

Un altro merito – forse il maggiore – è esser riuscito a districarsi da un rischio sempre presente quando si parla o si scrive di Napoli, la riproduzione di quell’immagine della città e della sua essenza che nasce dal groviglio di nostalgie, presunzioni, banalità, credenze, che hanno costruito nel tempo un formidabile, inossidabile luogo comune: la Napoli oleografica e mitizzata della napoletanità e poi della napolitudine, la versione moderna, postsessantottina della stessa rappresentazione.

Nessuna nostalgia, nessuna concessione alla captatio benevolentiae degli “stranieri” e degli stessi napoletani, al facile umorismo dialettale, al macchiettismo da avanspettacolo – o, per converso, al piagnisteo in cerca di comprensione – insomma, tutto ciò che appartiene alla rappresentazione tradizionale stratificata nel tempo – ma soprattutto ormai solo immaginaria – che una certa cultura locale continua imperterrita a promuovere e legittimare.

Così dalla vicenda narrata in Quaterna un giovane che si guadagna da vivere come parcheggiatore abusivo – col permesso della criminalità organizzata, naturalmente – trovandosi per caso in banca durante una rapina finita nel sangue decide di aiutare la polizia a identificare i rapinatori e finisce ammazzato mentre la mamma, ignara, esulta perché ha vinto al lotto: uno dei numeri usciti, 62, nell’oracolo dei fedeli alla tombola, la Smorfia, “il morto ammazzato”.

O in Buon appetito, la storia di un poveraccio che ha dovuto smettere di lavorare (in nero) perché si è beccato il cancro, e la volta che decide di comprare le pizze – da asporto – per i suoi bambini viene rapinato – delle pizze, sì – da uno più poveraccio di lui, ma proprietario almeno di una pistola…

Ancora altre storie – sempre costruite con un colpo di scena finale – spesso con donne protagoniste. Storie truci, feroci, senza scampo.

Una di queste, la più felice, Finché morte non vi separi, che fa pensare all’Ellmore Leonard di Quando le donne aprono le danze (2006) e ai romanzi di Andrea Camilleri, narra di una ragazza destinata sin da bambina a sposare un uomo più grande, e che non ha mai amato, che racconta, contrappuntando il presente dei funerali del marito ad un matrimonio non voluto e al passato dei giochi con l’amica del cuore della propria infanzia, la sua cuginetta Cecilia, di come si libera di questo marito impostogli, proprio sull’esempio della cugina, che ha subito la stessa sorte, per poi poter finalmente abbandonarsi all’amore che ha per lei.

O La gattara, il racconto in prima persona di una donna presa in giro e evitata da tutti, dedita solo ai gatti, che rivela nel finale di come il suo destino sia stato segnato dalla violenza subita dal padre da bambina, sotto gli occhi del suo gatto, e che alla fine del racconto decide di liberarsi del fato che la aveva per tanti anni imprigionata uccidendo proprio il gatto – e simbolicamente attraverso lui suo padre – e tornare a vivere come tutti gli altri.

O ancora, in Il prezzo dei sogni, il racconto di una tossicodipendente imprigionata in un circolo vizioso, che si ripete sempre uguale, giorno dopo giorno – e notte dopo notte: il tragitto in macchina per procurarsi la dose quotidiana, il ritorno a casa, la visita di un vicino che fa sesso con (?) lei, la paga, perché il giorno dopo la ragazza possa tornare a procurarsi la dose. Un destino da Sisifo ridotto al grado zero, come quello dei primi proletari ai tempi dell’accumulazione primitiva: farsi usare per procurarsi il denaro che serve a sopravvivere per farsi usare per procurarsi il denaro… in una spirale che si stringe sempre di più, senza speranza, senza liberazione, senza evasione…

Destini e vite che potrebbero essere di chiunque e dovunque nel mondo che si stende fuori – sotto – l’universo dei media e della vita che consideriamo quotidiana – quella della politica, dell’economia, dell’attualità, che al massimo qualche volta vi fa capolino, fra una pubblicità e una notizia di cronaca, ma che ne è il tessuto di fondo, il brodo di coltura reale.

Così la dimensione “napoletana” dei racconti di Pippo Zarrella si arricchisce di una cifra “globalizzata” in storie come Il fiore di Iris, che raccontando di una bambina di Haiti trasforma una catastrofe naturale recente nello spunto di partenza per una leggenda possibile, o in Rosso bianco e verde, in cui le parole di un giovane etiope che fa il lavavetri ai semafori sgretolano il presunto antirazzismo in cui ci crogioliamo in molti, in Italia, svelando ancora una volta, come i racconti che ho già citato, la realtà della nostra condizione: quella della guerra fra poveri – o fra poveri e più poveri.

Ma, forse, il racconto più bello di tutti, quello più “mainstream”, se vogliamo, e più autonomo da qualsiasi dimensione locale è Molotov, la storia di un adolescente che lavora e va a scuola, e che con la prima paga ricevuta va a comprarsi una scatola di mattoncini Lego. Vuole costruire prima di tutto un bel muretto colorato – la prima cosa che fanno tutti coloro che ricevono i Lego – per opporlo al Muro grigio e opprimente che lo separa, come i suoi connazionali, dal resto del paese. Che lo esclude, lo discrimina.

Il ragazzino è un palestinese, per cui i Lego sono una vera ricchezza, un lusso, che gli permette di viaggiare con l’immaginazione pensando a quello che insegna – a lui e ai suoi compagni – uno dei suoi prof, quello che ha mostrato in classe Guernica mentre gli fa ascoltare la registrazione delle urla di orrore di donne e bambini, di esplosioni, spari, i suoni della distruzione.

Un modo per ritrovare la sua età, la sua condizione di quindicenne, che ha dovuto aspettare troppo il giocattolo che desiderava da anni.

Costruisce il suo muro di mattoncini colorati, lo dipinge di grigio, e poi, quando la vernice è asciutta, sul suo muro in miniatura comincia a dipingere lui, urban writer in sedicesimo, in un paese in cui – davvero – è proibito dipingere sui muri. E mentre gioca e studia, ascolta la radio, la musica che trasmette, insieme alle notizie sulla guerra infinita di cui, anche lui, è vittima. Cattive, brutte notizie, come quella della morte violenta del suo prof, coinvolto suo malgrado in uno degli episodi del conflitto endemico, diffuso, fra israeliani e palestinesi

Non ne può più. Il dolore è immenso. Deve ribellarsi. E così, con i suoi compagni, si mette a preparare bottiglie molotov da scagliare contro il Muro, quello vero, non quello fatto di mattoncini Lego.

E così, il giorno dopo, va a manifestare la sua rabbia, la sua ribellione, insieme ai compagni, lanciando le molotov contro il Muro. Molotov – però – non piene di benzina e detersivo, ma di colori, gli stessi colori dei mattoncini, e delle opere d’arte che il prof gli mostrava in classe…

 

Adolfo Fattori

 

Letture

Altieri Alan D., Trilogia di Magdeburg, Corbaccio, Milano, 2006-2008.

Fattori A. Fucile G., Passaggi di stato, in Brancato S. Iannucci F. (a cura di)), Videoculture Strategie dei linguaggi elettronici, Napoli, 1988.

Leonard E., Quando le donne aprono le danze, Einaudi, Torino, 2006.

Tarantino C., Scrofole e re, Rubettino, Soveria Mannelli, 2012.




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