Attacco di Israele all’Iran
A parte un numero esiguo e irrilevante di negazionisti dell’ultima ora, la totalità degli analisti considera l’azione di Hamas del 7 ottobre un fondamentale turning point. Un punto di svolta.
Va pertanto considerato un prima e un dopo il 7 ottobre. E il dopo non avrà più alcuna attinenza con il prima. Cercare di immaginare quali possono essere le possibili evoluzioni del “dopo” non è cosa facile. Ma è utile considerare una premessa.
I punti di svolta fondamentali nella storia sono numerosi. Per attenersi alla ormai secolare questione arabo-ebraica (poi arabo-israeliana e infine israelo-palestinese) il primo, fondamentale turning point fu il massacro arabo degli ebrei residenti a Hebron nell’agosto del 1929. Un massacro indiscriminato di civili (stanziati a Hebron fin dalla fine delle Crociate) molto simile nelle modalità cruente di attuazione a quello del 7 ottobre.
In quel frangente l'ancora possibile convivenza fra le due comunità (o, al più, l’ancora possibile soluzione politica concordata di spartizione del territorio) divenne impossibile. E si determinarono invece le condizioni di quanto successe in seguito (in particolare la formazione delle componenti terroristiche sioniste le cui azioni furono una concausa della grande rivolta araba). In altre parole se si fa diventare il confronto politico, per quanto deciso, un "lecito" massacro indiscriminato di civili inermi, la soluzione non potrà più essere politica, ma solo bellica. Che è quello che è successo in seguito in quasi un secolo di confronto/scontro.
Il massacro del 7 ottobre ha rapidamente assunto un significato simile. Avviato probabilmente senza un esplicito accordo con gli alleati Hezbollah e Iran, come poteva sembrare in un primo tempo, nel progetto degli strateghi di Hamas dovevano essere contemplate un paio di possibilità ritenute credibili.
La prima e più plausibile era probabilmente che il numero di ostaggi avrebbe impedito un’immediata reazione forte da parte di Israele. E che, a fronte di un atteggiamento cauto dello stato ebraico, anche la Casa bianca sarebbe rimasta fuori dal conflitto, lasciando alle parti il lungo braccio di ferro per la soluzione del contenzioso.
Se fosse andata così, Hamas avrebbe riportato una vittoria sia militare che politica di portata storica. Tanti ostaggi avrebbero comportato un numero impressionante di prigionieri liberati. Lo scambio avrebbe enormemente accresciuto il suo peso politico all’interno dell’intero mondo islamico e avrebbe inaugurato con ogni probabilità una stagione di imitazioni, piccole o grandi che fossero, delle sue gesta. Israele dal canto suo avrebbe perso ogni capacità di deterrenza, sarebbe sprofondata nelle divisioni politiche interne ancor più di quanto non fosse accaduto nell’anno precedente e avrebbe perduto ogni potere contrattuale sia verso gli alleati che verso i propri nemici. Naturalmente era un'ipotesi non campata per aria: Israele più volte ha accettato uno scambio del genere (anche con i resti mortali di proprio cittadini o militari).
La seconda possibilità era che l’intero “Asse della resistenza” sarebbe sceso decisamente in campo al fianco dei miliziani di Hamas aprendo in contemporanea una serie di fronti (Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria, Iraq, Iran, Yemen) che avrebbero potuto saturare le difese israeliane mandandole in tilt, mentre l’esercito si sarebbe dovuto muovere in almeno tre o quattro direzioni diverse (Striscia di Gaza, Libano, West bank, Siria) incontrando prevedibilmente enormi difficoltà. La tempesta perfetta sarebbe stata salutata con gioia nel mondo arabo e musulmano fino a poter provocare una crisi diplomatica anche con i paesi arabi più vicini, Giordania ed Egitto, le cui opinioni pubbliche avrebbero potuto pressare i propri governi fino a determinarne forse un intervento diretto. Anche questa era una possibilità ipotetica, ma realistica, anche se difficilmente sarebbe passata inosservata agli analisti di Israele.
È lecito pensare che nell’immaginario dei leader di Hamas (e forse anche in quello degli ayatollah iraniani) questa ipotizzata “fine di Israele” non sia un’idea astratta, ma al contrario una prospettiva strategica estremamente concreta dal momento che l’obiettivo finale di eliminare l'esistenza stessa di Israele è scritto nero su bianco nel loro statuto fondativo.
In entrambi i casi la pianificazione del 7 ottobre, durata anni da quello che si legge, contemplava un finale win-win per Hamas. Se Israele non avesse reagito privilegiando la trattativa, Hamas avrebbe vinto politicamente, se avesse reagito accettando lo scontro la formazione islamista avrebbe vinto di più, avendo coinvolto l'intero mondo islamico a prendere parte al jihad contro i sionisti.
Come sappiamo si è invece verificata una terza possibilità, foriera di conseguenze molto rilevanti. Una terza strada che potremmo definire win-win-lose.
Nell'immediato dell’azione di Hamas e ai primi missili di Hezbollah, la presidenza americana ha saputo “leggere” esattamente quello che avrebbe potuto accadere e ha prontamente inviato nell’area due o tre squadre navali dall’enorme potere deterrente.
Hezbollah e Iran hanno capito l’avvertimento e, pur continuando a fiancheggiare Hamas con un numero di missili elevato, si sono ben guardati da un intervento più deciso. Lasciando a Israele la possibilità di fare come l’ultimo degli Orazi che affronta uno per volta gli avversari Curiazi.
Che sia questa la lettura corretta o che le due formazioni sciite (movimento e Repubblica islamica) non avessero avuto alcuna intenzione di entrare in guerra, il risultato non cambia. Di fatto Hezbollah ha lanciato migliaia di colpi sulla popolazione israeliana costringendo circa 70mila persone a evacuare le zone a ridosso della Linea blu e uccidendo una dozzina di ragazzini drusi e altri cittadini israeliani. Dal canto suo l'Iran ha lanciato centinaia di missili balistici in due tornate successive direttamente sul territorio israeliano.
Anche se Hamas ha riportato un successo di fatto bloccando (temporaneamente) l’allargamento degli accordi di Abramo all’Arabia saudita (win) e vincendo indubbiamente la battaglia della propaganda (win), è però andata incontro a una reazione che potrebbe mettere fine alla sua continuità d'azione almeno per molti anni (lose).
Resa quasi inoffensiva (ancora non lo è) l’armata islamista a Gaza e iniziata la manovra per rendere altrettanto inoffensiva (ancora non lo è affatto) quella di Hezbollah, lo stato ebraico ha pianificato la reazione direttamente contro l’Iran. Dopo averne saggiate a più riprese le capacità reattive adesso ha in mano sufficienti dati e informazioni per sapere dove e quando colpire.
È presumibile che lo farà pochi giorni prima del voto americano, il 5 novembre, per garantire a Donald Trump una qualche forma di sostegno politico. Devo a modificare questa frase visto che l’attacco israeliano è avvenuto proprio mentre scrivevo, a dieci giorni dal voto americano.
Sembra, per quello che se ne sa, poco più che dimostrativo, anche se delle vittime ci sono state. Ma molti osservatori evidenziano che la prima ondata di attacco ha “aperto un corridoio” verso l’Iran, distruggendo stazioni radar in Siria e Iraq, per poi colpire obiettivi esclusivamente militari.
Un assaggio di reazione talmente moderata che, secondo il Corriere della Sera, ha suscitato l’espressione polemica del leader dell’opposizione Yaer Lapid: «L’aeronautica ha fatto un ottimo lavoro, ma la decisione di non colpire siti strategici ed economici dell’Iran è sbagliata. Avremmo potuto esigere un prezzo molto più alto dagli iraniani. Perché loro sono i capi dell’asse del male e devono pagare un prezzo alto, per la loro aggressione».
Resta da capire il motivo di tanta moderazione. Un'ipotesi è che un’eventuale escalation esporrebbe Israele non solo all’intensificarsi della guerra su più fronti, ma anche a un possibile stop al supporto americano da parte di Biden nell’interregno tra voto (5 novembre) e insediamento (20 gennaio) del nuovo presidente. Joe Biden potrebbe cioè volersi togliere qualche sassolino dalle scarpe e rispondere picche alle richieste di rifornimenti da parte del governo israeliano, non avendo più alcuna preoccupazione elettoralistica dopo il voto.
Un’altra è che la moderazione potrebbe essere interpretata oltreoceano come un ordine di "andarci piano" da parte dell’amministrazione Biden verso la prevista ritorsione israeliana in risposta alle centinaia di missili sparati dall’Iran in due occasioni diverse.
L'immagine di una Israele che combatte con le mani legate mentre viene attaccata da sei fronti diversi potrebbe essere un argomento sostanzioso per alimentare la polemica politica di Donald Trump (favorevole a colpire i siti nucleari iraniani) contro la sua avversaria.
Già abbandonata dagli araboamericani e da parte di afroamericani filopalestinesi, adesso potrebbe essere abbandonata anche da frange dell'elettorato ebraico, tendenzialmente democratico come gli araboamericani, per non aver - in quanto vice di Biden – supportato a sufficienza lo stato ebraico, tanto da impedirgli di reagire con forza agli attacchi subiti. Se perfino l'opposizione israeliana critica l'operato del governo Netanyahu in questo frangente, lo sdegno potrebbe fare breccia nell'elettorato democratico più sensibile alle ragioni di Israele e ricadere poi su Kamala Harris.