mercoledì 3 marzo 2021 - UAAR - A ragion veduta

Asterisco e schwa: da una lingua ‘premurosa’ scaturisce una società inclusiva?

Uno spettro – anzi, due – si aggirano per l’Italia, promettendo di combattere il sessismo della “lingua di Dante”: l’asterisco e lo schwa (/ə/). A volte se ne aggiunge un terzo, la terminazione in “u”. O invece si fonde la desinenza del maschile e quella del femminile dando vita alla desinenza “-ie”. Ma a cosa servono questi congegni? E come si dovrebbero usare? La questione è più complessa di quanto possa apparire e, nel perseguire la causa nobile dell’inclusività (realizzabile peraltro con strumenti linguistici propri della lingua italiana), si producono spesso risultati discutibili.

Iniziamo dal primo simbolo: l’asterisco. Questo simbolo grafico non ha bisogno di introduzione: segnala al lettore che manca un’informazione e lo invita a cercarla a fondo pagina o da qualche altra parte nel testo. E per questo scopo è stato impiegato finché non si è iniziato ad adibirlo a desinenza di neutro: si lascia così uno spazio vuoto da riempire con la desinenza che si preferisce. Una soluzione fai-da-te che però presenta non pochi problemi: nell’anarchia dei social network, sono comparsi ovunque enunciati impronunciabili come “Tutt* gl* [o addirittura “*l*”] amic* di Maria sono bell*” che lasciano il lettore perplesso e spaesato. L’italiano è per definizione la lingua delle terminazioni vocaliche e le parole che terminano in consonante sono più uniche che rare. Via quindi l’asterisco, avanti con lo schwa: una semivocale con un suono intermedio tra la “a” e la “e”, poco conosciuta dagli italiani. Non per loro negligenza: l’italiano standard non la prevede. Semmai viene prodotta involontariamente quando si tossisce, ma nessuna parola dell’italiano richiede dei colpi di tosse per essere pronunciata. L’inglese ne fa invece grande uso, mentre il tedesco e l’arabo prevedono anche il ‘colpo di glottide’ (che assomiglia effettivamente ad un colpo di tosse). Estranea all’italiano o meno, la schwa è però sembrata a molti una soluzione convincente e migliore del neutro in -u. Ci voleva poco, a dire il vero: la quantità di -u che veniva fuori era elevatissima, e ne uscivano frasi dal suono lugubre e lamentoso, ben lontane dalla musicalità che invece caratterizza l’italiano. Ad un certo punto, alcune case editrici hanno quindi iniziato a pubblicare libri dove compare la schwa al posto del maschile generico, concepito come un retaggio sessista e patriarcale. Ecce homo – o meglio, ecce neutrum.

Ma siamo così sicuri che in Italiano non ci sia il neutro? Perché in realtà c’è, anche se non si vede. Succede qualcosa di simile con il soggetto: se non è espresso, è perché si può ricavare dal contesto ed è quindi sottointeso, ma non di certo inesistente. In linguistica il fatto che qualcosa non si vede non vuol dire che non esiste, caratteristica in cui questa scienza è molto simile alla religione. Ci sono però molte prove che il neutro esiste, a differenza delle oltre centomila divinità venerate oggi in ogni angolo del mondo. Il maschile italiano deriva dalla fusione (in termini tecnici, sincretismo) del neutro e del maschile latino: i due generi erano talmente simili che l’italiano ha preferito accorparli. E così il maschile lupus perse, oltre al pelo, il brutto vizio di avere la consonante finale, e vide la sua -u passare ad -o diventando lupo, esattamente come il neutro digitum (dito). In questo modo l’italiano – per una volta – ha semplificato la vita ai suoi utenti, già alle prese – e spesso con pessimi risultati – con un sistema verbale molto complesso. Di relitti del neutro latino (che al plurale aveva desinenza -a ) l’italiano è pieno ancora oggi: di sicuro a qualcuno di noi avranno fatto male le ginocchia (e non i ginocchi ) o saranno cadute le uova (e non gli uovi ) a terra. Piccoli inconvenienti che dimostrano che in italiano il neutro esiste, e coincide nella forma con il maschile. Quindi, da un punto di vista meramente linguistico, non c’è alcun motivo di inventarne uno.

Alla base della necessità di non esplicitare il genere ci sono due supposizioni di base. Da un lato, l’idea che una lingua senza genere sia più rispettosa dell’identità altrui. Dall’altro, la deduzione che da una lingua ‘premurosa’ scaturisca una società inclusiva. Si finisce così per fare previsioni che vengono spesso disattese. L’ungherese è una lingua “gender-free” per eccellenza, priva di genere persino nei pronomi. leggendo un romanzo possiamo quindi assegnare ai personaggi il genere che vogliamo, o non assegnarglielo affatto. Chiunque definisca l’Ungheria una nazione inclusiva verrebbe però considerato folle. In piena pandemia, il governo ha approfittato dei pieni poteri conferiti dal Parlamento per mutilare i diritti delle persone transgender, Viktor Orban ha inoltre ritirato il paese dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza di genere per contrastare la diffusione dell’”ideologia gender”, e aggiunto nella Costituzione un articolo che vieta esplicitamente le adozioni omosessuali, (uno dei più accaniti oppositori delle famiglie arcobaleno è stato poi sgamato su una grondaia del centro di Bruxelles mentre fuggiva da un’orgia gay, con sommo imbarazzo del presidente ungherese).

Se si osserva la Finlandia, la situazione cambia e le previsioni sembrano invece essere confermate. Il finlandese, lingua ugro-finnica come l’ungherese, è anch’esso privo di genere grammaticale; la Finlandia è inoltre un paese molto avanzato sul fronte dei diritti civili. Questo dato, però, non conferma che ad una lingua considerata inclusiva corrisponda una società inclusiva. Né che la prima sia un presupposto della seconda: se così fosse, ogni comunità linguistica che non marca il genere dovrebbe costituire una società aperta e progressista. Viceversa, dove si parla una lingua dalla grammatica ritenuta poco inclusiva dovremmo aspettarci una società estremamente chiusa.

In un’ipotetica partita di calcio ‘inclusivi’ vs. ‘non inclusivi’ verrebbero allora fuori degli schieramenti molto improbabili. Nella squadra degli ‘inclusivi’ troveremmo quindi nazioni effettivamente progressiste come la Finlandia e la Svezia, affiancate però da compagni di squadra come l’Ungheria, la Turchia e persino l’Iran. E nella squadra dei ‘non inclusivi’ troveremmo paradossalmente nazioni come il Portogallo, la Spagna e la Francia, nazioni che invece si classificano ai primi posti da anni per inclusività, parità di genere e diritti LGBT. La sfida dell’inclusività, insomma, è importante: affrontarla cimentandosi nella decostruzione della lingua, nella speranza di abbattere anche i dogmi e i retaggi sessisti ed omobitransfobici, potrebbe rivelarsi uno sforzo inutile. E si potrebbe finire per delegittimare la lotta per l’affermazione dei diritti universali. Il rischio peggiore e più concreto è quello di offrire il fianco alle bordate dei fondamentalisti religiosi e degli ultraconservatori, che dipingerebbero i movimenti che portano avanti anche – ma non solo – queste lotte come infantili e le loro rivendicazioni come capricci. Per il progresso vero, forse, abbiamo bisogno di altro (o altr*?).

Simone Morganti

 




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