Armi chimiche, armi letali. Pronto un inceneritore che a Civitavecchia non vuole nessuno
Civitavecchia – Nella stessa giornata della manifestazione STOP TTIP Italia, nella città portuale si è svolta in mattinata un’altra protesta che ha visto la partecipazione di almeno duemila persone per dare lo Stop all’inceneritore di armi chimiche in corso di avanzata progettazione presso il Centro Tecnico Logistico Interforze Nucleare Batteriologico Chimico (NBC) e che ha visto la partecipazione dei sindaci del comprensorio, delle forze politiche unite senza distinzioni, sindacati, cittadini, studenti, Università Agraria, Medici per l'ambiente- ISDE e naturalmente delle associazioni ecologiste.
Tutti uniti nel denunciare come inaccettabile una nuova servitù ambientale, per giunta mai monitorata in precedenza da ARPA o altre istituzioni, quasi non bastasse la concentrazione in pochi chilometri quadrati di una centrale a carbone di Enel, di fumi delle navi e delle emissioni dei depositi costieri oltre che del traffico veicolare. Un mix davvero unico a cui mancava evidentemente qualcosa.
Ma come si è arrivati all’ossidatore termico, questo il termine utilizzato nelle comunicazioni ufficiali per definire l’incenerimento di armi chimiche, sul quale da tempo si sono accumulate interrogazioni alla Camera dei deputati e alla Regione Lazio da parte dei rappresentanti di Movimento 5 Stelle, SEL e PD? E qual è il peso complessivo nel nostro Paese di questi arsenali spesso ignorato?
Nel novembre del 2009, Gianluca Di Feo, nell’articolo L'Italia top secret delle armi chimiche pubblicato sull’Espresso, anticipando i contenuti del suo libro Veleni di Stato, ricostruiva la storia delle tante armi chimiche, dall’iprite al fosgene all’adamsite e altre che hanno attraversato buona parte delle guerre del novecento e che sono finite in tanti siti sparsi in Italia. L’avvento della chimica aveva infatti consentito la produzione di armi più o meno letali per ammazzare i nemici ma nessuno aveva pensato al come si potesse tornare indietro, a come renderle inerti o bonificabili a guerre finite. Anzi, come accade in questi casi, quanto più alta è la tossicità e i rischi derivanti all’ambiente e alla salute non solo umana dalla conservazione delle armi chimiche, tanto maggiore è il silenzio che ne copre gli effetti e le dimensioni. Non parliamo di grammi ma, come sottolinea Di Feo, di “almeno 150 tonnellate di iprite del modello più micidiale, mescolata con arsenico…oltre mille tonnellate di adamsite, un gas potentissimo ma non letale usato contro le dimostrazioni di piazza, 40.000 proiettili chimici”. Cosa fare di tutto questo armamentario di cui la Convenzione di Parigi sulla Proibizione delle Armi Chimiche entrata in vigore nel 1997 richiedeva lo smantellamento e la distruzione? La risposta fu trovata a Civitavecchia, dove dal 1978 operava nelle cosiddette attività di “demilitarizzazione” il Centro Tecnico Logistico Interforze Nucleare Batteriologico Chimico, il CETLI, nel Comprensorio militare di Santa Lucia, indicato come “unico impianto nazionale abilitato al recupero l'immagazzinaggio e la distruzione delle armi chimiche”.
Proprio l’unicità di questo modello ha aperto la strada all’innovazione tecnologica perché già dal 2010 si profila la novità dell’ossidatore termico, di cui nessuno aveva sentito mai parlare prima, e che avrebbe ottenuto di lì a poco un finanziamento di circa diciotto milioni di euro, sufficienti all’acquisto delle nuove attrezzature. Una caratteristica questa che sarebbe stata condivisa con tre siti simili per caratteristiche e già in funzione in Germania, Stati Uniti e Giappone. Intanto però nell’opinione pubblica e nelle forze politiche si consolidava l’idea che l’ ossidatore termico mascherasse in qualche modo un inceneritore e che, come tutti gli inceneritori, avrebbe emesso altri fumi inquinanti, una situazione valutata allarmante in presenza di dati epidemiologici con trend negativo da anni su varie patologie tumorali e respiratorie per tutta l’area circostante Civitavecchia.
Per saperne di più, la parlamentare Marta Grande in un’interrogazione chiedeva lumi e manifestava dubbi sulla innocuità del processo di ossidazione.
Il sottosegretario alla Difesa, Gioacchino Alfano, il 20 marzo del 2014 rispondeva chiarendo che la convenzione di Parigi obbligava il nostro Paese a farsi carico della distruzione di tutte le armi chimiche e che l’impianto non si configurava “ quale « inceneritore » per l’assenza di fiamme libere e per la temperatura di esercizio che non avrebbe superato i 500°C contro i 1000°C di un inceneritore. Due sembrano i punti deboli rilevabili nella risposta del sottosegretario, Il primo è che l’apparecchiatura possa essere considerata assimilabile a un “forno industriale di piccola capacità” e non assoggettabile a procedure di Valutazione di Impatto Ambientale o Autorizzazione Integrata Ambientale. La seconda è che l’analisi dei fumi emessi dopo il filtraggio viene considerata come “di impatto ambientale minimo” mentre la “composizione qualitativa dei gas” viene effettuata da appositi analizzatori..
La mappa segreta delle armi chimiche (Fonte l'Espresso)
Non convince infatti nessuno che controllato e controllore siano lo stesso Ente delle Forze Armate che definisce l’impatto ambientale “modesto”, perché il conflitto d’interessi è piuttosto palese. Sul secondo aspetto appare poi improbabile che un forno dove si generino composti velenosi possa essere paragonato magari a un forno per la panificazione artigianale solo perché di piccola capacità, dimenticando i materiali trattati nel forno e il fatto che filtri di qualsiasi genere non riescano a fermare le nanoparticelle.
Sta di fatto che il comitato spontaneo dei Cittadini uniti contro l’inceneritore ha dimostrato con la forza di una partecipazione civile molto consistente che le politiche contro l’ambiente e la salute non sono più tollerabili in un’area provata da scelte prese altrove e consumate sulla pelle dei cittadini.