lunedì 9 settembre 2019 - Phastidio

Argentina e FMI: il tango del default e le occasioni perdute

Visto che il mondo sovrabbonda di esperti del giorno dopo, quelli che spiegano cosa è andato storto e cosa si sarebbe dovuto fare per raggiungere il lieto fine, proviamo ad analizzare gli errori (di Mauricio Macri prima e del Fondo Monetario Internazionale poi) che hanno condotto al nuovo default sul debito dell’Argentina. Ma soprattutto proviamo a rispondere alla domanda ormai ricorrente: c’era un modo diverso di ballare il tango, per il governo di Buenos Aires ed il Fondo di Washington?

Chi legge questi pixel ha già una discreta collezione di post su questo tema. Ad esempio, verso la fine del regno della Presidenta Cristina Fernandez de Kirchner, avevo già segnalato che gli argentini avrebbero avuto davanti a sé una via dolorosa, prima di rivedere le stelle. Troppo elevata era la divergenza tra la politica economica kirchnerista e l’assetto che avrebbe dovuto assumere un paese integrato nei mercati mondiali.

Ma questo è il punto: un paese deve per forza essere integrato nei mercati mondiali? E in quali, esattamente? Diciamo che la risposta alla prima domanda è affermativa, soprattutto se sei un grande esportatore agroalimentare. Quindi sì, serve integrarsi nei mercati globali. In transizione, credo servisse essere un po’ meno integrati in quelli finanziari, che sappiamo tendono a schiacciare l’economia reale, se le cose vanno storte, con la loro massa d’urto letteralmente sovrumana. Di certo, credo si possa inferire che approccio gradualista e integrazione piena al mercato dei capitali sono difficilmente compatibili.

 

Che avrebbe dovuto quindi fare Macri, dopo l’insediamento? Col senno di poi, proviamo ad immaginarlo. Spesso si dice che quando un paese vuole tornare nel consesso globale, e smettere di essere un paria del medesimo, la prima cosa da fare è rimuovere i controlli sui capitali. Macri ha fatto esattamente questo, negoziando con i creditori per sistemare il lungo strascico legale dei default precedenti.

Dopo di che, ha deciso di cercare un modo per finanziare il deficit pubblico e rimpinguare le riserve valutarie del paese, approfittando della enorme fame di rendimento dei mercati. E così ha emesso debito in dollari in quantità industriali. Si è soliti dire che Macri è uno spietato liberista, di quelli che propugnano la famosa macelleria sociale. In realtà, la lentezza con cui il presidente argentino, privo di maggioranza parlamentare, ha attuato la manovra di cambiamento, indica che egli ha cercato di ridurre la sofferenza sociale per la ristrutturazione dell’economia.

La via alternativa era quella di tagliare subito il deficit, distruggere domanda interna per via fiscale e monetaria e mandare in drastico surplus la bilancia commerciale per ricostituire riserve, lasciando fluttuare il cambio per rilanciare l’export ma al contempo alzare nettamente i tassi per agevolare l’afflusso di capitali.

Un simile set di misure avrebbe massacrato ampi strati della popolazione, come facilmente intuibile. Invece, Macri ha puntato sul forte indebitamento in valuta per ammorbidire la ristrutturazione del bilancio pubblico, soprattutto la rimozione di sussidi perversi. Quando il vento è cambiato, ed i residenti hanno ricominciato la corsa al dollaro, Macri si è rivolto al FMI per avere enormi iniezioni di liquidità in valuta forte, tali da puntellare il precedente debito.

Non solo ciò non è servito, ma anzi si è accelerata la tendenza alla fuga dal peso sino al getto della spugna, che sarebbe comunque avvenuto anche in caso la schiacciante affermazione del candidato peronista Alberto Fernandez (in ticket con la rediviva Cristina) alle elezioni primarie non si fosse verificata.

Oggi l’Argentina è tornata alla status quo ante, con la reimposizione di controlli sui capitali, lo stigma supremo, pur se attenuato -illusoriamente- da misure tali da non ostacolare il commercio estero.

Ma che si sarebbe dovuto fare, quindi? Col famoso senno di poi, penso si sarebbe dovuto fare qualcosa di eterodosso eppure non escluso dallo stesso Fondo, almeno nella sua letteratura scientifica.

Subito dopo l’elezione, Macri avrebbe dovuto mantenere controlli sui capitali e chiedere al FMI anziché ai mercati dei capitali le risorse valutarie necessarie al paese. Contestualmente, il Fondo avrebbe dovuto mettere in pratica quanto ipotizzato in alcuni suoi paper di ricerca e prese di posizione di alcuni suoi autorevoli esponenti: consentire all’Argentina di restare in regime di controllo dei capitali. Misura necessaria e complementare ai prestito dell’istituzione multilaterale basata a Washington.

 

In questo modo sarebbe stato possibile creare un cronoprogramma realistico di ristrutturazione del bilancio pubblico, con riqualificazione della spesa pubblica, soprattutto sociale, in senso di equità.

Ovviamente, queste sono le famose ricette del giorno dopo. Ve lo vedete, voi, Macri che va al FMI il giorno dopo l’elezione a chiedere svariate decine di miliardi di dollari? Io no. Il Fondo, chiamato in causa a danno fatto, e per ammissione della stessa Christine Lagarde unica alternativa rimasta a Buenos Aires, a quel punto ha preferito proseguire con l’ortodossia monetaria e mantenere la fluttuazione del peso, al netto di autorizzare interventi di stabilizzazione talmente esigui e circoscritti che chiunque, leggendo quelle prescrizioni, le avrebbe identificate come un enorme mirino dipinto in fronte all’Argentina, rispetto alla speculazione internazionale. Speculazione, lo ricordiamo, che si “limita” a mettere in luce le contraddizioni della politica economica di un paese.

Ma la seconda parte della lezione (in realtà la principale) è che ci sono situazioni in cui la massa d’urto dei mercati finanziari globali è tale da impedire un approccio gradualista nelle politiche economiche. Chi legge con regolarità questi inutili post, sa che mi piace stressare un concetto: quello di transizione. Il fiume che separa le rive di due stati del mondo, che spesso si dimostra infestato da animali feroci e talvolta da scorie fortemente radioattive. Detto in altri termini, l’umana esistenza è fatta di tradeoff, cioè di alternative. Compito della politica (si fa per dire) è quello di occultare o minimizzare il costo di queste alternative.

Che accadrà, ora? Aspettiamo l’elezione di Fernandez, il prossimo 27 ottobre. Ma pare probabile che il paese si avvierà verso un nuovo periodo di politiche eterodosse, avverse alla crescita e tali da porre una seria e grave ipoteca sul futuro degli argentini, sotto le mentite spoglie di un’illusoria riduzione della sofferenza nel breve termine. Assai probabile anche una bella benedizione papale. E, sempre col senno di poi, potremo dire che il FMI ha perso un’occasione storica per cambiare rotta e strumenti nella sua cassetta degli attrezzi.

Foto: Pixabay




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