mercoledì 13 settembre 2023 - Phastidio

Argentina e Brics, al Limes della realtà

Dai fantasiosi vantaggi economici e geopolitici derivanti dall'ingresso nei Brics all'ipotesi di dollarizzare e ritrovarsi schiavi delle politiche economiche statunitensi: è sempre mala tempora, Argentina

 

In attesa delle elezioni presidenziali argentine, dove alle primarie il candidato cosiddetto anarco-libertario Javier Milei ha ottenuto il primo posto con circa il 31% dei voti, l’Argentina riflette sul proprio futuro, collocazioni internazionali incluse. E qui l’adesione al fantomatico blocco dei Brics, che dovrebbe avvenire dal prossimo primo gennaio e che come tale dovrà essere ratificata dal nuovo presidente, incrocia aspirazioni, ambizioni, speranze e disperazioni di una economia devastata da decenni di follia populista.

Andiamo con ordine. Mi sono imbattuto in un commento su Limes, la rivista italiana di geopolitica fondata e diretta da Lucio Caracciolo, che da sempre ma soprattutto in questi mesi esprime una acuta nostalgia per gli anni ruggenti della Guerra Fredda, visti di là del Muro. Il commento è a firma di Federico Larsen, presentato come “giornalista italo-argentino, membro dell’Istituto di relazioni internazionali dell’Università Nazionale di La Plata”, che ritiene che l’Argentina dovrebbe aderire ai Brics, traendone sicuri vantaggi.

BRICS, LA LIBERAZIONE IMMAGINARIA

Tra le motivazioni addotte per l’adesione, Larsen cita il volume di interscambio commerciale argentino con Brasile, Cina e India, che assieme rappresentano il 30% degli scambi argentini. Sarebbe utile verificare il commercio con la Ue e gli Stati Uniti, ma prendiamo per buona questa considerazione, tenendo anche presente che il commercio internazionale non è (ancora) qualcosa che implica esclusività, nel senso che scegliere un paese o un blocco non implica necessariamente precludersi lo scambio con altri. Almeno, sinché guerra fredda e protezionismo non ci separino.

Oltre a questa motivazione piuttosto fragile, che nulla dice sui livelli di barriere doganali e sul potenziale di loro ulteriore riduzione in ipotesi di ingresso nei Brics (qualcosa che non ho ancora letto da nessuna parte, ma forse sono distratto), Larsen aggiunge che l’adesione ai Brics gioverebbe all’Argentina perché la libererebbe dall’onere di usare il dollaro negli scambi commerciali, segnatamente per pagare le proprie importazioni:

L’idea dell’organizzazione di ricorrere alle monete nazionali degli Stati membri in sostituzione del dollaro per gli scambi commerciali, come riportato ai punti 44 e 45 del documento finale del summit di Johannesburg, è vantaggiosa. Il paese è impantanato in una crisi finanziaria senza fine dovuta principalmente alla mancanza di moneta statunitense nella propria economia. Guadagnerebbe così uno strumento alternativo per affrontare i propri impegni internazionali.

Qui siamo all’errore da matita blu. Per pagare le importazioni serve una valuta accettata dal paese che ci vende qualcosa. L’Argentina sfuggirebbe alla “dittatura” del dollaro pagando le importazioni in pesos, che sono carta straccia? No, vero? Forse Larsen ignora che il candidato peronista alla presidenza, e attuale ministro delle Finanze, Sergio Massa, è andato a mendicare yuan cinesi per risparmiare dollari. Peccato che quegli yuan siano un prestito. Quindi, diciamo all’autore e a tutti quelli che si eccitano per questa miracolosa trovata di pagare le importazioni in valuta diversa dal dollaro, che l’Argentina non ha quelle riserve, quindi continuerebbe a vivere a credito.

C’è poi la Nuova Banca di Sviluppo, entrando nella quale Buenos Aires avrebbe prestiti a condizioni “amichevoli”, narra la vulgata:

Entrando nell’organizzazione, l’Argentina […] avrebbe una nuova fonte di finanziamento in grado di dare respiro a dei conti sempre più in rosso.

No: entrando nell’organizzazione, l’Argentina avrebbe un nuovo creditore a cui pagare interessi. Anche se tali interessi fossero inferiori a – e sostitutivi di- quelli che paga su altro debito, quello col Fondo Monetario Internazionale.

MALVINAS, O CARE

Dopo questa notevole sequenza di fallacie e wishful thinking, l’autore cala la carta pesante:

Tutti i membri del Brics, inoltre, riconoscono l’esistenza del conflitto tra Londra e Buenos Aires sulle isole Malvinas/Falkland. Brasile e Cina riconoscono apertamente la sovranità argentina sui territori contesi, la Russia sostiene la ripresa dei negoziati.


[…] L’integrazione dell’Argentina nei Brics potrebbe dare nuovo impulso alla richiesta di apertura delle negoziazioni con Londra – interrotte dalla guerra del 1982 – cui il blocco potrebbe aderire compatto.

Ah, perbacco. I Brics, come un sol gaucho, spezzerebbero le reni al Regno Unito sino a restituzione delle Malvinas. In astratto, Londra fuori dalla Ue è più aggredibile, ma questo scenario resta risibile o più propriamente ridicolo. Attenzione a scambiare la realtà con i propri sogni bagnati.

Ma non temete: l’Argentina ha un santo protettore nel presidente brasiliano Lula, che vuole fortissimamente avere un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza Onu, opportunamente riformato. Che c’entra l’Argentina, con ciò? Non saprei ma l’autore indica che con questa partnership privilegiata, di cui Buenos Aires è l’evidente junior partner,

[l]’entrata argentina nel blocco rafforza questo rapporto subordinato anche in altri ambiti internazionali, come il Mercosur o l’Organizzazione degli Stati americani.

Visto? Si parte da Mercosur e OSA, e in un attimo si vola al Palazzo di vetro a New York. Pindaro, scansati. Lula pesa “molto” nei Brics e di conseguenza, secondo l’autore, spingerà la Cina a farsi più in là all’Onu. A posto. Sul finire del commento, l’autore viene apparentemente aggredito da realtà e realismo, ed enumera alcune riserve. Che tuttavia si squagliano rapidamente sotto il calore del sol dell’avvenire.

La riluttanza argentina verso i Brics è dovuta al presunto rapporto conflittuale con gli Stati Uniti e il cosiddetto Occidente, di cui il paese fa indubbiamente parte. Una rapida analisi della relazione tra Usa e Cono Sud, e in special modo tra Usa e Argentina, porterebbe però a rivalutare quest’idea.

Perché rivalutare quest’idea, nel senso di valutarla nuovamente e rimuovere le remore a procedere? In essenza perché Buenos Aires ha un debito di 45 miliardi di dollari verso il FMI, e di conseguenza, questo enorme fardello

[…] costringe le potenze occidentali a garantire una soluzione positiva della sua situazione per evitare il rafforzamento delle alternative allo status quo finanziario internazionale.

Che poi sarebbe una specie di: non mi dai i soldi a condizioni vantaggiose? E io vado altrove, tié. Perbacco, questo si che è leverage. Purtroppo per l’Argentina, non nel senso diplomatico del termine ma in quello finanziario, di pietra al collo. Ma non importa, abbiamo altre frecce nella faretra. Quando Buenos Aires si volge verso Pechino, Washington scuce i soldi. E vissero tutti felici e contenti.

L’ALTERNATIVA: DOLLARIZZAZIONE SENZA DOLLARI

A parte queste perle di wishflul thinking di aspiranti incravattati con seta cinese, che dire invece del piano di Javier Milei per dollarizzare l’economia argentina, cioè andare in direzione opposta a chi non vede l’ora di finire in braccio alla Grande Onlus planetaria dei derelitti, per gli amici Cina?

Alcune cose: per dollarizzare un’economia, servono (incredibile dictu) i dollari. Per reggere un’economia dollarizzata serve una base monetaria di dollari, tra le altre cose per scongiurare corse agli sportelli bancari. L’Argentina al momento ha riserve valutarie nette negative, cioè non solo non ha dollari propri ma ne deve al resto del mondo. Che fare, quindi? Reperirle. E come? Vendendo il paese (inclusi reni e altri organi, come suggerirebbe Milei) e facendosi pagare in dollari. E/o accendendo prestiti in dollari. E si torna al via.

Sarebbe anche utile ribadire che un’economia dollarizzata diventa letteralmente schiava del dollaro. Quando i tassi sul biglietto verde scendono e c’è propensione globale per il rischio, i capitali affluiscono sui mercati emergenti, che vivono un boom da spendere in cabina elettorale. Appena la Fed alza i tassi, quei capitali evaporano, e si vede chi nuota senza costume.

Prendete l’Ecuador, paese dollarizzato. Durante la presidenza di Rafael Correa (2007-2017), il paese ha raddoppiato la spesa pubblica, inebriato dal boom petrolifero e dai dollari facili. Appena il vento è cambiato, ecco la “ristrutturazione” del debito pubblico. Per farla breve, la dollarizzazione non esime dalla disciplina fiscale (anzi), oltre a legare il destino del paese alle politiche monetarie (e fiscali) di Washington.

Ma ci sarà tempo e modo per approfondire, in caso Milei compisse il miracolo e si trovasse anche un Congresso favorevole. Sarà un esperimento sociale “affascinante” ma al contempo tragico. Per tutto il resto, passiamo il tempo con i viaggi al limes della realtà.




Lasciare un commento