venerdì 6 settembre 2013 - Traiettorie Sociologiche

Ancora una corsa in moto. "L’ultimo regalo" di Gianfranco Pecchinenda

La letteratura è sempre in qualche misura un’espressione della spinta all’autobiografia. In modo diretto o indiretto, lo scrittore parla di sé. Che lo faccia attraverso la mimesi – un alter ego per protagonista – o attraverso la creazione di un perfetto estraneo, completamente differente da sé, l’autore mette sempre in opera una vasta messa in scena di tempi e luoghi, interiori ed esterni, in cui ha vissuto, pensato, sentito – spazi/tempi in vario grado assimilabili a quelli reali – di cui è sempre l’autore che parla. O in maniera più radicale ed esplicita, coraggiosa, rappresentando apertamente se stesso collocato sul palcoscenico dell’immaginario.

Così, direttamente, Gianfranco Pecchinenda in L’ultimo regalo (Lavieri, 2013), il suo terzo lavoro narrativo, si espone ancora una volta, dopo i suoi racconti sul padre (2009) e la sua incursione nel tema del doppio (2011) alla narrazione di sé, dei suoi ricordi, dei suoi sentimenti, rivolgendosi alla madre, connettendo e sgranando frammenti di autobiografia tenuti insieme dal filo – sottostante e nascosto, che ogni tanto riemerge e si fa esplicito – della sociologia dell’identità e della riflessività del , l’altro filone – coerente con il suo lavoro di narratore – della sua identità.

Così la memoria, l’oblio, la relazione con gli “altri importanti” fanno da ordito di sfondo su cui si articola la trama del racconto, senza rinunciare alla dimensione del fantastico come forza propulsiva della narrazione.

Così, procedendo nella sua ricerca – letteraria e scientifica – sul “Sé riflesso”, Pecchinenda sviluppa il dialogo con il lettore e se stesso dividendo in due parti il romanzo, la prima intestata a “Lo Scrittore”, la seconda a “L’Altro”, costruendo un labirinto ordinato in cui l’uso di queste due figure e di due diverse persone verbali rafforza il senso della riflessività del sé.

Nella prima parte del romanzo lo Scrittore si rivolge al protagonista dandogli del tu, descrivendone azioni, sentimenti, emozioni, agendo come macchina per ricordare sua madre, cui il romanzo è dedicato, e come macchina per inventare, man mano che il ricordo di un avvenimento reale si trasforma in un viaggio fantastico che da Napoli trasporta il protagonista (Pecchinenda stesso) e la madre a Caracas, l’altro luogo in cui l’autore ha vissuto. Come se ne raccontasse un sogno, e come solo un altro potrebbe fare, visto che, di regola, quando ci svegliamo ricordiamo sì di aver sognato, e qualche barlume del sogno, ma difficilmente il sogno stesso… Napoli – il Vomero, anzi – e la città sudamericana si mescolano e si fondono, costruendo l’allusione – l’illusione – dell’unificazione di due mondi e due vite, alla ricerca della ricomposizione di una frattura fra due luoghi, due tempi, due persone, che forse aiuti a dare senso alla frattura, alla rottura definitiva, quella che ci impone la morte di un nostro caro. Allora interverranno “… l’oblio della voce, dunque. Poi seguirà l’oblio degli oggetti che, sensa di lei, non avranno più senso, non significheranno niente” (p. 14).

Frammenti di un esoscheletro che gli usi, le abitudini, le necessità, il progresso ci hanno indotto a costruirci addosso, un carapace componibile e smontabile che è diventato noi, che ci ha manifestato, ci ha illustrato, che è stato parte integrante della nostra identità – e che senza di noi ad animarlo si trasforma in un sacco vuoto, in un’accozzaglia di pezzi senza utilità, senza legame. Quasi a richiamare, ribaltandole, le parole di Robert Walser – che Pecchinenda conosce bene – in L’assistente, in cui Joseph Marti, si sente come “… un bottone penzolante che nessuno si prende la premura di attaccare, perché si sapeva che la giacca non era indossata per molto tempo. La sua esistenza era una giacca provvisoria, non un abito fatto su misura” (Walser, 1976).

Residui sparsi di un alfabeto con cui abbiamo riempito il nostro nome, che senza più noi a dargli vita diventano sillabe senza senso…

E, sottotraccia, appena udibile, il mormorio dei sentimenti, delle emozioni, degli stati d’animo: antiche allegrie, vecchi rimpianti, sensi di colpa e rimorsi, ma anche riconoscenze e riconoscimenti, e il dolore per la perdita del legame che avevano con la loro fonte. Ricordi fluttuanti, che speriamo non impallidiscano, non si confondano fra loro, unico legame che ci resta con il passato. Così, dei segni che le consuetudini ci costringono a cucirci addosso per dare forma a noi stessi esteriormente non rimane più nulla, mentre rimane, per chi resta, ciò che è più impalpabile e volatile – i ricordi, le fantasie, la memoria dei nostri cari, a cui aggrapparci nell’ostinato tentativo di mantenerli con noi. E cosa meglio della scrittura, per farlo?

L’artifizio dello “Scrittore” e del Tu con cui costui si rivolge al suo personaggio – che è anche l’autore e il protagonista del romanzo – attiva quindi una prima presa di distanza, quella che permette di far intuire i sentimenti dell’autore salvandone la riservatezza – una cifra della sua scrittura che Gianfranco Pecchinenda aveva già rivendicato apertamente in L’ombra più lunga – che gli permette (paradossalmente?) di introdurre la prima persona nella seconda parte del romanzo, quella attribuita all’Altro, che è l’autore stesso, che così si può dedicare ad una narrazione più piana, più lineare, più diretta. E a ri-narrare del suo rapporto con la madre, protetto dalle parole con cui lo “Scrittore” aveva rielaborato e raccolto nelle forme del racconto fantastico, onirico, i ricordi del passato con lei.

Perché – e questo è uno dei punti su cui Pecchinenda batte spesso – quanto possiamo pensare di aver conosciuto davvero i nostri genitori? E quanto crediamo che loro abbiano davvero conosciuto noi? (p. 49). Da qui il senso di rimpianto per le occasioni che ora, troppo tardi, capiamo di aver perso, che sappiamo perderemo nei confronti dei nostri figli, e che loro perderanno nei nostri…

Perciò, ancora una volta, con insistenza, la proposta di un’ultima corsa in moto (p. 108), nell’ultimo tentativo per sperare di cogliere, trattenere e poter salvare il senso profondo del legame fra una madre e suo figlio. E, credo, l’individuo e tutti coloro cui è stato legato, e con cui non può più parlare.

Di nuovo in questo romanzo torna uno degli argomenti delle riflessioni sociologiche dello scrittore: la capacità di mantenere quel “dialogo con i morti” che la modernità pare aver del tutto smarrito.

Ma mi sembra ci sia di più, un passo ulteriore: la ricerca delle basi per la costruzione di una “sociologia dell’affettività”, di una articolazione della ricerca che cominci a esplorare un campo da cui i sociologi si sono finora tenuti piuttosto alla larga, perché da sempre considerato più che altro appannaggio della psicologia (Illouz, 2013).

In realtà, tutta la vicenda dello sviluppo e della dissoluzione della narrazione moderna – della forma romanzo – è parallela all’ascesa e alla crisi del Sé moderno e dell’individualizzazione, ne ha accompagnato e commentato, meglio descritto e glossato le tappe, mettendone in rilievo i picchi, gli abissi, le ossessioni, i traguardi e le cadute, i punti più sensibili. Il sistema di relazioni, quindi, in cui l’individuo si muove e la cui topografia si trasforma con il mutamento sociale. Le relazioni strumentali, insomma, ma prima di tutto quelle affettive, che insieme alle prime – e forse più delle prime – partecipano alla definizione dell’identità, ne sono il nucleo profondo. E il romanzo ha una profonda, fondativa forza sociologica nella descrizione della dinamica che si attiva fra individuo e società moderni (Berger, 1992).

La sua natura profonda – e quella del narratore – è fatta della capacità di proporre situazioni e personaggi “idealtipici”, e di permettere a noi lettori di riconoscerci e identificarci nelle situazioni e nelle scelte, nelle azioni e nei discorsi dei personaggi, nel senso di colpa, nel rimpianto e nella commozione, alimentando e arricchendo quel continuo dialogo che conduciamo con noi stessi e che Pecchinenda riproduce facendo dialogare l’autore che, dall’esterno, guida la mano dello Scrittore, poi dell’Altro, e del protagonista con sua madre. Operazione coraggiosa e rischiosa, certo, ma riuscita.

Fare narrativa, allora, è in notevole misura fare sociologia. Siamo tutti individui del nostro tempo, e nelle nostre manifestazioni non possiamo non mostrare noi stessi e il nostro essere parte della formazione sociale in cui viviamo. Possiamo quindi – se proviamo ad esplorare i territori della narrazione – sperimentarci nel thriller, nel romanzo di avventure, nel melodramma (ma cosa sarebbero se non avessero anche un contenuto emotivo? Sarebbero lo stesso racconti?), oppure sperimentare strade più ardue e meno battute, che mettono in primo piano noi stessi e i sentimenti che abbiamo provato e proviamo.

 

Adolfo Fattori

 

Letture

Berger P., Robert Musil e il salvataggio del sé, Rubettino, Soveria Mannelli, 1992.

Illouz E., Perché l’amore fa soffrire, Il Mulino, 2013.

Pecchinenda G., L’ombra più lunga, Colonnese, Napoli, 2009.

Pecchinenda G., Essere Ricardo Montero, Lavieri, S. Angelo in Formis, 2011.

Walser R., L’assistente, Einaudi, Torino, 1976. 




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