giovedì 12 febbraio 2015 - angelo umana

American sniper, di Clint Eastwood

Guerra quanta ne vuoi (a “strafottere”, si dice in siciliano volgare): tecnologica; di precisione; di caccia all’uomo casa per casa; regionale per le scene di distruzione che sono mostrate; planetaria, perché i moderni mezzi militari e non, di cui nel film c’è grande dispiego, permettono pure di sentire dagli USA il proprio marito combattere o di vedere le bombe in diretta e il conteggio aggiornato dei morti in televisione.

Questo American Sniper è l’elegia della “leggenda” Chris Kyle, tiratore scelto dei “seals” in Iraq, 160 prede al suo attivo (!) ma morto 39enne nel 2013 vicino al suo focolare domestico, ucciso da fuoco amico o più precisamente da un reduce deluso dalla presunta utilità delle guerre (utilità per chi?). Uno snip, dice l’Oxford Dictionary, è un “fire shot from a hiding-place, usually at long range”, uno sparo a lunga distanza da un posto nascosto, lo sniper è praticamente un cecchino, quasi infallibile nel caso di Kyle. Una “leggenda” c’è anche tra gli iracheni, comunemente visti come terroristi, chissà poi perché, pare che si trattasse in realtà di un siriano che vinse la medaglia del tiro a segno in qualche olimpiade. Ma questo muore, colto dalla distanza di quasi due chilometri proprio da Kyle, la leggenda americana. I “nostri” vincono, pure se in mezzo a tante perdite.

Il tanto fragore bellico nel film richiama alla mente le sparatorie del wild-west a cui prendeva parte, vincente, Clint Eastwood, oggi anziano, saggio, conclamato e celebrato regista. Qualche commentatore ha detto che da parte di Eastwood ci sia approvazione dell’intervento americano in Iraq, pare che al regista questo non sia importato, lui sembra compiacersi del crepitare delle armi e dell’azione, senza alcuna valutazione morale di quella guerra. Ingentilisce il film però con il travaglio interiore della “leggenda” a far saltare un bambino a distanza e con l’immancabile sindrome del reduce che fatica a riambientarsi nella società.

Kyle decise di arruolarsi in quel corpo dei seals, che si dice nel film superiore ai marines, con annesso addestramento simil- Full Metal Jacket, perché papà gli aveva insegnato che esistono tre categorie di uomini: le pecore, i lupi e i cani pastore. Lui scelse di preservare e difendere la virtù dei “giusti” e le immagini dell’attentato a Nairobi e delle Twin Towers che crollano lo convinsero ancora di più del suo ruolo nel “servire il mio Paese”. In uno dei suoi ritorni dai tour in Iraq – i viaggi verso il territorio bellico nel film si chiamano tour – dice alla moglie che lo vede assente, quasi un pesce fuor d’acqua quando è lontano dalle operazioni militari, pronto a vedere nemici ovunque, fortemente compreso nel suo ruolo di cane pastore: “Siamo attaccati al cellulare a vivere le nostre vite superficiali, c’è una guerra e io vado al centro commerciale…”. Immancabile anche il fragore del film in campo mediatico, nell’imminente festa degli Oscar: incredibile come i film candidati all’Oscar si nutrano soprattutto di grandi nomi e di grossi budget, oltreché di gran pubblicità.




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