lunedì 30 luglio 2018 - Aldo Giannuli

Alimentazione e Biologico | Qualità e identità nel mondo globalizzato

In questo anno accademico i miei studenti hanno prodotto degli elaborati individuali di cui alcuni di qualità decisamente apprezzabile, per cui mi sembra giusto pubblicare i lavori migliori su questo sito, sia per il loro contenuto informativo che per dimostrare una cosa che dico da tempo: questi ventenni promettono molto bene, a differenza degli attuali Tq (trenta-quarantenni) che si sono rivelati tremendamente deludenti (e vedi che classe politica hanno espresso), per cui possiamo sperare che si stia preparando un buon ricambio.
Iniziamo con questo testo di Andrea Pentimone su alcuni aspetti del rapporto fra cibo e globalizzazione.

Aldo Giannuli

Qualità e identità nel mondo globalizzato

di Andrea Pentimone

BIO-BOOM:
“Aziende «bio», più di 150 offerte”, così recita il titolo di un articolo comparso lo scorso gennaio sul Corriere della Sera nella sezione “Trova-Lavoro”, in cui solitamente compaiono le varie inserzioni lavorative che il quotidiano propone. Tale richiesta di manodopera è ovviamente il frutto di un grande successo di tali imprese, successo dovuto essenzialmente alla vendita di “cibo biologico” che secondo i dati Ismea (Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare) è essenzialmente aumentata del 10,3% nei primi 6 mesi del 2017. L’aspetto più curioso è che tali assunzioni non riguardano unicamente il settore agro-alimentare, ma anche quello della cosmetica. Infatti oltre ad industrie per esempio come “Abafoods”, “specializzata nella produzione di bevande vegetali bio”, “Naturasì”, “con oltre 250 punti vendita in Italia” e “Bio c’ Bon”, una “catena di supermercati bio attiva sul mercato nostrano da 3 anni con 15 negozi”, compare per esempio anche l’impresa francese di cosmetici “Cattier”, e altre industrie dello stesso campo come “Aurelia” e “Léa Nature”, “a cui fanno capo vari brand”, evidenziando i molteplici aspetti che questa nuova cultura del cibo abbraccia e sponsorizza.

Davanti ad un tale trionfo della cosiddetta “cultura biologica” occorre domandarsi prima di tutto quali sono le spinte alla base di una tale cultura del cibo e come questa è stata accolta così efficacemente all’interno delle nostre tavole. La cultura biologica promuove prima di tutto un più alto valore nutrizionale dei prodotti, puntando sulla qualità, ma soprattutto sulla cosiddetta “sanità” di un prodotto e per tali motivi i cibi bio contengono un più alto valore nutrizionale, fondandosi su principi prettamente ecologici e legati al benessere fisico. L’agricoltura biologica incentiva infatti sia una maggiore redditività per gli agricoltori sia una ricca biodiversità locale, contro il crescente timore di un’”omologazione della dieta” dovuta alla cosiddetta “globalizzazione alimentare”. “C’è molta omologazione sulla terra” così denuncia, ilfattoalimentare.it, il sito web online fondato da Dario Dongo, avvocato e docente al campus Biomedico dell’Università di Roma, esperto di diritto alimentare, e docente alla facoltà di Agraria all’Università di Palermo. “L’allarme lanciato da anni da studiosi e ambientalisti assume ora contorni più definiti, grazie ad un grande studio pubblicato su PNAS , il quale ha preso in esame i dati della FAO relativi a 50 diverse sementi coltivate in 150 paesi dal 1961 al 2009, quantificando l’entità del disastro legato alla standardizzazione della dieta umana”. “Il grano”, continua, “è la principale coltura nel 97,4% dei paesi, il riso nel 90,8%, la soia nel 74,3%; accanto ad esse stanno crescendo d’importanza le coltivazioni di piante ad alto contenuto energetico come le palme da olio e i girasoli.”

L’articolo prosegue evidenziando poi i danni subiti dai terreni, “sempre più poveri” a causa dello sfruttamento intensivo che ne fanno le industrie, portando le piante ad essere vulnerabili a fattori climatici sfavorevoli, come la siccità, e esponendoli maggiormente a malattie e parassiti. La pagina infine denuncia anche i danni legati alla salute stessa delle persone, allarmando su malattie legate “agli eccessi nel consumo di cibi altamente lavorati. Il tutto agevolato e incrementato dalle multinazionali e dal fast food, che fanno di tutto per sostenere il trend, visto che in alcuni paesi occidentali (e soprattutto del Nord Europa) è in calo.” È infatti proprio in questi paesi europei, e in anni recenti anche nell’area mediterranea, che la nuova cultura del “mangiare sano e biologico”, ma anche “sostenere l’ambiente” è entrata a far parte dello stile di vita di molti.

La paura di una crescente “omologazione alimentare” globale, il deterioramento dell’ambiente e l’invasione di cibi grassi e poco salutari ha caratterizzato tutta la storia della seconda metà del XX secolo, quando il nuovo sistema di distribuzione alimentare ha cambiato profondamente il rapporto delle persone col cibo, ovvero nel momento in cui sempre più una tipologia di alimenti curata nel design quando confezionati, commercializzati e pubblicizzati con l’aiuto delle ultimissime tecnologie alimentari, iniziò ad essere distribuito attraverso canali commerciali sempre più complessi e finemente collegati tra loro. Potremmo quindi affermare che tale timore trae le sue profonde radici, più che su valori post-materialisti (tra cui lo slogan stesso del “mangiare biologico”) che ne sono in parte eredi, dalla relazione stessa che le varie culture hanno adottato nel tempo col cibo. In una grande opera sulla storia del cibo pubblicata nel 1996 e curata da Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari, viene osservato come il morale delle persone deriva spesso e volentieri dal loro rapporto col cibo.

In particolare viene citato il caso singolare di Marc Meneau , uno dei più grandi chef francesi, a cui gli venne commissionato negli anni novanta di sviluppare un “range” di alimenti liofilizzati di alta qualità appositamente per l’uso da parte degli astronauti francesi, durante le loro missioni nello spazio. Che a ad uno chef francese venga appositamente chiesto di rimediare al fabbisogno degli astronauti che la Francia spedisce in orbita, evidenzia come il cibo sia strettamente legato sì ad un principio di “salute” e “benessere fisico”, ma ancora più profondamente, e probabilmente da più tempo del primo, ad un forte senso di “identità”, che a sua volta in parte rivela una stretta connotazione con la predilezione del “cibo di qualità”, perché appunto più “caratteristico” e “rappresentativo” di una determinata appartenenza culturale.

Nell’Europa degli ideali post-modernisti, originatisi dagli eccessi della cultura neoliberista, ha influito fortemente sui giudizi delle masse la “paura” di perdere la propria identità, cedendo ai cosiddetti “invasori”.

La cultura biologica stessa in parte trae origine da uno scetticismo di fondo verso le ultime innovazioni e tecnologie nell’industria alimentare, da molti associata automaticamente al fenomeno globale dello sfruttamento dei terreni, del land grabbing, della deforestazione delle foreste del Borneo o dell’Amazzonia, fenomeni comunque disastrosi per l’ecosistema del nostro pianeta e da contestare. Tuttavia la reazione biologica potrebbe quasi sembrare un “eccesso” ad alcuni osservatori nel senso opposto, essendo conservatrice e in parte anche scettica dei recenti progressi scientifici in campo alimentare, come per esempio gli OGM (Organismi Geneticamente Modificati), da più di quindici anni ormai sulla scena del dibattito pubblico e scientifico globale. Repubblica cita in un suo articolo uno studio pubblicato su “Science Advances” redatto dal team di ricercatori della University of British Columbia che ha analizzato i pro e i contro dell’agricoltura biologica per la salute dell’ambiente. Se i pro già li conosciamo, esistono tuttavia anche degli svantaggi riguardo ad una tale dieta. Il cibo bio comporta infatti prima di tutto “prezzi più alti” (quindi non proprio adatti per esempio a paesi “in via di sviluppo”) e “bassi rendimenti rispetto all’agricoltura tradizionale” (il rendimento di una coltivazione biologica è tra il 19% e il 25% inferiore a quello di una coltivazione convenzionale). “Secondo la ricerca”, afferma l’articolo, “l’agricoltura biologica dovrebbe quindi essere valutata su base contestuale. Prendiamo, per esempio, due concetti oggi cari a molti consumatori: l’utilizzo di pesticidi sintetici e i benefici nutrizionali del biologico.

Come spiegano i due autori [Verena Seufert e Navin Ramankutty], in paesi sviluppati come il Canada, dove sono presenti leggi sui pesticidi molto rigorose e il regime alimentare è già ricco di micronutrienti, i benefici per la salute di scegliere prodotti organici potrebbero essere del tutto marginali”. La morale è che “il bio non è sempre meglio, e un’adozione indiscriminata di queste tecniche di coltivazione avrebbe gravi ripercussioni sull’ambiente, soprattutto in termini di consumo del suolo”; la coltivazione biologica necessita di più terra per ottenere la stessa quantità di cibo di una coltura tradizionale ed “è bene ricordare che la conversione del suolo per l’agricoltura è la causa rincipale della perdita degli habitat e del cambiamento climatico”.

In fondo anche la cosiddetta “cultura-bio” sembra in parte rivelarsi tanto sfruttatrice dell’ambiente, quanto lo sono le industrie accusate di star distruggendo l’ecosistema con l’espansione dei loro stabilimenti e nuovi giacimenti di risorse. Il criterio della qualità e del mantenimento di un’identità nutrizionale rimangono costanti nella ricerca di nuove soluzioni alimentari, tuttavia il dibattito pubblico ultimamente sembra abbastanza restio a fidarsi delle nuove innovazioni scientifiche, a causa spesso del limitato dialogo tra la scienza stessa e il grande pubblico di massa, ma anche a causa di quella credenza profondamente radicata, e in parte veritiera, di una costante invasione di merci straniere. L’”identità” di una tradizione culinaria specifica sta veramente scomparendo di fronte alla cosiddetta “omogeneizzazione dell’alimentazione” o ci sono dei caratteri che sono comunque in qualche modo immutabili al cambiamento e che vanno oltre il semplice alimento, come la convivialità, il gusto e le tradizioni? È possibile che anche nella civiltà industriale vengano in qualche modo poste le premesse per la nascita di nuove tradizioni/identità e quindi qual è il ruolo della scienza per aiutare a vincere la sfida della sostenibilità dell’alimentazione, e mettere fine a fenomeni come quello del land grabbing?

SCIENZA, INDUSTRIA DEL CIBO E SVILUPPO DELLA PERCEZIONE PUBBLICA:


Nel XIX secolo un’infinita Rivoluzione Industriale, un esodo dalle campagne verso le città, il trionfo dell’economia di mercato sull’economia di sussistenza, un formidabile sviluppo del trasporto e del commercio internazionale e un’iniziale contrazione del “gap” tra la ricchezza dei ricchi e la miseria dei poveri portarono anche alla necessità di un’”industria di trasformazione alimentare” con vasti impianti di lavorazione di prodotti di base come la farina, l’aceto, l’olio e lo zucchero, una volta fabbricati con metodi artigianali. “L’esodo dalla campagna ha lasciato i contadini di oggi il possedimento di proprietà agricole più ampie del passato. Inoltre essi ricavano maggiori guadagni dal loro terreno con meno sforzo, grazie alla meccanizzazione, i fertilizzanti artificiali e nuove specie di colture” . Dalla Rivoluzione Industriale in poi, nella cosiddetta “età della modernizzazione” e tutt’oggi nel mondo della “globalizzazione”, la scienza sembra un meccanismo ormai irrefrenabile, costantemente alla ricerca di nuove soluzioni e possibilità, aprendo ogni tanto nuovi spiragli che, se alimentati nel modo giusto, conducono inevitabilmente a nuovi rami e campi di ricerca. Tuttavia la scienza non è l’unico attore in gioco e l’età moderna in qualche modo è costantemente puntellata di discontinuità, paradossi e incomprensioni tra gli studi scientifici del momento, gli interessi del mercato industriale e la percezione da parte del pubblico di massa, un meccanismo fondamentale da comprendere per arrivare a spiegare come mai per esempio attuali soluzioni che la scienza propone riguardo alla questione alimentare (per esempio gli OGM) si trovino a fronteggiare tutt’ora una fortissima e risoluta opposizione da numerose posizioni saldamente avverse, curiosamente rappresentate soprattutto da “non scienziati”.

La scienza negli ultimi due secoli è stata spesso e volentieri (più o meno servizievolmente a seconda delle casistiche) sottomessa alle politiche industriali, mentre in situazioni e momenti differenti si opporrà fermamente ad esse, malgrado non otterrà sempre quell’appoggio del terzo “giocatore” in campo (le masse) indispensabile ago della bilancia nel confronto con lo strapotere del mercato.

Nel XX secolo, come osservato da Flandrin, ci fu una sostanziale regressione a situazioni di carestia e siccità in molte zone del Terzo Mondo perché “la produzione agricola in molti luoghi non è riuscita a tenere il passo con la costante crescita demografica, il suolo è stato eroso, e le guerre civili, così comuni al giorno d’oggi, hanno ostacolato la fornitura di soccorsi alimentari” . Anche i contadini occidentali dai possedimenti più ampi e forniti di nuove tecnologie, nonostante i miglioramenti tecnologici, si ritrovarono col tempo alla mercé di un’economia di mercato e di una concorrenza estera pressante, cosa che portò in alcuni momenti ad una sostanziale sovrapproduzione agricola con conseguenti enormi debiti a gravare sulle loro spalle. Se la scienza forniva nuove soluzioni per favorire il benessere industriale, la politica economica delle potenze industriali dominanti dettava le regole di mercato, sfruttando le risorse a cui aveva accesso con metodologie più o meno imperialiste. Sarà proprio questa fiducia/sfiducia del pubblico nel “nuovo” scientifico che si ripresenterà a fasi alterne, spesso dettata dall’ignoranza, altre volte invece da motivazioni più o meno valide, a portare ad una cultura alimentare non senza paradossi, in cui il concetto di “qualità” difficilmente potrà essere scisso da quello di “identità” o con quello di “tradizione”, mentre il concetto di “industriale” va spesso ad assumere, almeno al giorno d’oggi, una connotazione fortemente negativa e da denunciare, nonostante in passato è stato più volte il simbolo dello sviluppo qualitativo dei prodotti alimentari stessi.

Un primo paradosso venutosi a creare secondo i due autori è infatti la curiosità che le persone iniziarono a riversare sulle abitudini alimentari delle campagne e dei contadini, nonostante tra il XIX e il XX secolo la popolazione contadina diminuì notevolmente. Le persone cominciarono di fatto a sviluppare un profondo interesse per le cucine locali, promuovendo la diffusione di guide gastronomiche regionali e provinciali per turisti. Ciò avvenne, secondo la parte curata da Julia Csergo all’interno dell’opera, sul risveglio delle tradizioni culinarie provinciali francesi, perché “il nazionalismo era l’ordine del giorno, un terreno fertile per i promotori dello sfruttamento delle cucine regionali” , e una conseguenza sarà il ruolo chiave del nascente “turismo” di fine Ottocento nel trasformare ciò che una volta era una risorsa prettamente locale in una primaria fonte di guadagno per il benessere economico (di ristoratori e albergatori) e industriale.

Il secondo paradosso del rapporto dell’uomo con il cibo nell’età moderna è invece il risveglio dell’elemento religioso nelle abitudini alimentari occidentali durante il Novecento, periodo in cui il rispetto per le osservanze religiose tradizionali era decisamente in declino. Questo elemento sarà molto influente nel dettare le diete alimentari da seguire (tra i cristiani soprattutto i protestanti avranno un ruolo cardine in questo). Un caso emblematico di un tale rapporto identitario e “moralizzatore” col cibo è forse quello americano, ben rappresentato nel libro dei due autori da una sezione curata da Harvey A. Levenstein. La dieta americana è sempre stata caratterizzata fin quasi dalle origini dal mito dell’”abbondanza” di risorse alimentari che l’immenso territorio americano aveva da offrire, mito che si trasformerà in seguito in propaganda politica dell’industrialismo americano, ma anche in un’ossessione durante i periodi di crisi, come avverrà con la Seconda Guerra Mondiale. Tale caso è curioso perché fin dai primi decenni dell’Ottocento “ci furono i primi tentativi per regolare e restringere la dieta nazionale; collegando il cibo che la scienza aveva ritenuto deleterio [per il corpo umano] con gli sforzi dati dalla ricerca della purezza morale. […] Le idee del predicatore protestante William Sylvester Graham contro l’alcol si basavano sull’idea ‘vitalista’ che il sistema nervoso contenesse una forza da cui dipende tutta la vita. Presto egli allargò l’accusa fino ad includere ogni forma di stimolazione nervosa (dall’attività sessuale al consumo di carne e spezie). […] La “denaturazione” del grano (usato per le pagnotte bianche realizzate con farina setacciata) diventò uno dei più importanti bersagli [delle denuncie] di Graham” . Anche con il cambio di secolo predominò essenzialmente l’idea delle innovazioni scientifiche come un avanzamento sia della salute che della moralità della nazione con un forte impatto soprattutto sulla classe media, sensibile alle richieste di cambiamento dietetico con riguardo al benessere fisico, soprattutto nei riguardi delle classi inferiori meno curanti della propria dieta; tuttavia solo dal 1917 con la scoperta dei benefici dati dalle vitamine, inizia ad essere largamente accettata la supremazia del criterio della salute fisica sulle scelte gastronomiche. È proprio a questo punto che possiamo forse fare una piccola osservazione, ovvero come gli interessi industriali e le credenze delle masse vadano in fondo a collidere più nettamente che in passato con determinati ideali scientifici. Infatti con questa particolare vitalità della politica della “salute alimentare”, portata avanti dal governo americano fino agli anni Settanta, rinominata più volte “vitamania”, “la produzione del cibo negli Stati Uniti si stava mano a mano trasformando in una serie di industrie altamente organizzate dipendenti in gran parte da investimenti di capitali, dalla produzione meccanizzata, da reti sofisticate di distribuzione e enormi spese per la promozione e la publicizzazione. Le industrie casearie risultavano tra quelle che ebbero maggior successo nel diffondere la ‘vitamin consciousness’. […] L’immagine del latte si trasformò da ‘cibo per bambini’ nel ‘cibo perfetto per gli adulti’, contenendo praticamente ogni nutriente necessario per una buona salute”. Comportandosi in tale maniera, tali politiche industriali ottennero ben poche simpatie da parte per esempio delle organizzazioni dei medici che non erano esattamente entusiasti di ciò che stava avvenendo, dato che vedevano nella “vitamania” una “ricorrenza della secolare minaccia secondo cui le persone cercano aiuto non medico quando vengono colpiti da una malattia. [Infatti] il pubblico veniva ripetutamente rassicurato che gli integratori vitaminici non erano necessari perché potevano ricavare nutrienti più che sufficienti per assicurare una buona salute, semplicemente tramite una ‘dieta bilanciata’” .

Con gli anni Cinquanta e l’epoca del “baby-boom”, in seguito al famoso razionamento, operato durante la guerra, della non più esageratamente “abbondante” offerta alimentare americana (anche se stoltamente e cecamente molti americani continueranno ad avere l’ossessione di stare continuando a vivere tale abbondanza di prodotti agricoli) venne necessariamente intrapresa una politica basata sulla “convenienza”, incentivando produttori e processori a sviluppare una serie di nuove metodologie per aumentare, preservare, riscaldare e impacchettare il cibo. “Tra il 1949 al 1959, la sola industria chimica realizzò più di quattrocento nuovi additivi per aiutare il cibo a durare nei nuovi processi di lavorazione. Ogni tipo di preoccupazione riguardo agli effetti di questi metodi sulla qualità nutrizionale fu largamente spazzata via dall’orgoglio nella capacità inventiva americana. Le esibizioni sponsorizzate dal governo erano strutturare per impressionare i visitatori stranieri con i traguardi tecnologici che il capitalismo americano impiegava nel cibo, negli elettrodomestici per la cucina, negli allestimenti dei supermercati dei centri commerciali” .

Questo atteggiamento di “soddisfazione nazionale” non sopravvisse alla fine anni Sessanta quando si arriverà ad un intensa critica della società americana, facendo riaffiorare quegli ideali di preoccupazione e benessere che già si erano verificati in passato. “C’era costante allarme sugli effetti dei pesticidi, dei fertilizzanti chimici che venivano utilizzati ormai in modo estensivo nel processo di coltivazione, degli antibiotici e degli altri prodotti chimici utilizzati nella produzione della carne. […] Il risultato più noto del nuovo spirito critico fu la moda per i cibi ‘organici’, ‘naturali’ e [quindi] ‘non processati’, una tipologia di ripristino di un misto di salute, moralità, e romanticismo che prevalsero negli anni Trenta e Quaranta del XIX secolo. I giovani veterani della ‘Nuova Sinistra’, le cui campagne contro l’imperialismo e il razzismo si esaurirono nei primi anni Settanta, rivolsero la loro critica morale del capitalismo verso i suoi effetti sul cibo e l’ambiente.” Curiosamente in modo simile al modo di agire delle campagne ‘pro-bio’ di oggi, “essi accusavano le multinazionali di utilizzare le loro immense risorse pubblicitarie per fare il lavaggio del cervello agli americani perché mangiassero prodotti troppo elaborati, non salutari e pericolosi per l’ambiente” .

Di sicuro tutt’oggi ad avere un ruolo determinate nel giudizio del pubblico sono in fondo i “benefici” che esso riceve dal mercato, benefici che possono essere sia pratici che prettamente culturali e identitari, che i consumatori ricavano, o comunque osservano in una determinata politica industriale, tuttavia ignorandone spesso i meccanismi fondamentali, come l’impatto che certe condotte hanno sui prodotti stessi, l’ambiente e addirittura le politiche nazionali e internazionali tra i paesi. Di sicuro non è più un segreto per molti che molti alimenti di oggi nell’universo occidentalizzato, passati appunto per l’industria (a parte i prodotti “bio”), presentano una qualità notevolmente inferiore rispetto ai prodotti artigianali del secolo scorso, ma magari le stesse persone non avrebbero niente da ridire contro l’aumento delle offerte che un supermercato o un “discount” offre normalmente e anzi magari si lamenterebbero quando i prezzi tornano nuovamente a salire. Il rischio spesso è infatti di legare in modo indissolubile la questione della qualità al solo processo produttivo e lavorativo di un determinato prodotto, senza però interrogarsi sulle politiche di diffusione e concorrenziali attorno allo stesso sul mondo del mercato. Con ciò mi riferisco a quel fenomeno molto attuale anche in Italia che due giornalisti di Internazionale in un loro articolo hanno definito “il grande inganno del sottocosto” .

Il pezzo incomincia a delineare sinteticamente la complessità della rete che collega tra loro i vari attori principali dell’universo della distribuzione alimentare: “Per ognuno di questi prodotti esiste chi ha coltivato la materia (l’agricoltore), chi l’ha trasformata (l’industriale), chi la vende (gdo ) e chi la consuma (il cittadino). I fornitori cercano di vendere al prezzo migliore, I responsabili delle catene di supermercati spesso determinano i costi al ribasso. Ognuno di loro gioca una partita non sempre ad armi pari in cui ci rimette sempre chi ha meno potere contrattuale. […] Oggi attraverso la gdo passa circa il 70% degli acquisti alimentari. Dal punto di vista di chi produce (gli agricoltori e gli industriali) è di conseguenza il canale di distribuzione più importante, spesso l’unico, per stare sul mercato.” Per attuare le cosiddette politiche di “offerta” e concorrere sul mercato all’insegna del rilancio al prezzo più basso, le gdo richiedono a fornitori diversi impegni economici e contributi alle stesse, riepilogati sotto la voce di “fuori fattura”, come le cosiddette “listing fee”, “una somma da versare per ogni prodotto […] se vuoi stare sullo scaffale del supermercato ed essere visibile al consumatore”; oppure come una serie di sconti applicati retroattivamente dalle gdo ai loro fornitori e i contributi che spesso vengono richiesti per inaugurare un punto vendita. “Attraverso un questionario inviato a 471 imprese agroalimentari, l’autorità per la concorrenza [antitrust] […] sancisce che sconti e contributi costano alle singole aziende fornitrici il 24,2% del fatturato con la catena cliente. In pratica, un quarto del prezzo effettivo del listino”. Nonostante i controlli dell’antitrust, tra i fornitori aleggia l’incubo del “benservito”, ovvero l’esclusione dalla catena di distribuzione per diffondere i propri prodotti, per questo in molte occasioni “il fornitore cerca solo di salvare la pelle. Tira in avanti i negoziati. Accetta gli sconti e i contributi e nel frattempo aumenta i prezzi di listino per recuperare. Così alla fine, si perde in qualità o in funzionalità”, visto che “questi sacrificano la qualità e tagliano i costi del lavoro, per non rimetterci. […] Nei campi di pomodori o arance, la raccolta è pagata a quattro soldi e gestita spesso da caporali, intermediari illeciti tra i lavoratori e gli imprenditori agricoli”. In un tal caso oggi si sta generando spesso un meccanismo per cui il consumatore in fondo rischia di perdere di vista il vero valore dei prodotti che acquista, separando il cibo e la qualità dello stesso dalla modalità in cui viene prodotto, rischiando di perdere di vista l’importanza del mantenimento di un criterio di qualità al fine di evitare fenomeni immanenti ad una produzione stremata (generando fenomeni come lo stesso caporalato), sacrificando inoltre il proprio benessere in nome della “convenienza” oltre che di un rapporto col cibo non più come parte dell’”identità” stessa delle nostre tavole. Ovviamente la logica delle gdo si inserisce in un contesto più ampi di “libero scambio”, che come abbiamo già accennato, dagli anni Cinquanta ha iniziato ad imporsi sui mercati globali. Infatti un “basso costo dei trasporti marittimi, delle tecniche di refrigerazione” e un “gigantismo delle reti distributive”, come osserva il professore Aldo Giannuli in un suo articolo sulle nuove forme che ha assunto il cosiddetto “problema alimentare”, si è arrivati “in primo luogo ha accentuato la spinta alla concentrazione delle culture in un numero ristretto di centri”, ma è soprattutto “aumentato il grado di interdipendenza dei vari paesi. […] Nell’epoca che registra una produzione di generi alimentari come mai nel passato, quegli stessi beni diventano una delle principali cause di crisi geopolitiche […] ed è per la per la ragione di controllare le fonti di approvvigionamento alimentare che ha preso avvio la pratica del ‘land grabbing’, per cui i paesi finanziari più forti (fra gli altri Usa, Cina, Russia, Francia, Giappone) acquistano spazi di terra sempre più vasti in Africa per appropriarsi delle rispettive produzioni agricole così sottraendole alle popolazioni locali” . “Le terre coltivate e predate del pianeta sono come una superficie di campi coltivato grande otto volte il Portogallo” spiega Paolo Lambruschi in un suo articolo pubblicato su Avvenire: “dal 2000 fino allo scorso marzo, i contratti di acquisto o affitto di terra nel mondo sono 2.231 per un estensione di oltre 68 milioni di ettari: A questi vanno sommati altri 209 in corso di negoziazione, per oltre 20 milioni di ettari” .

Il “benessere alimentare” è tutt’oggi divenuto una specie slogan contro il baluardo odierno della biotecnologia legata alla produzione agricola e industriale, erroneamente associata ad un inevitabile ulteriore sfruttamento di terreni o di un ulteriore deterioramento della qualità dei prodotti, che diverrebbero in qualche modo “artificiali”: gli OGM. “Mentre alcuni argomentano che l’ingegneria genetica è differente dalla moderna tecnologia alimentare convenzionale e pertanto richiede una maggiore supervisione, altri contestano l’opposto, evidenziando come gli uomini abbiamo modificato geneticamente le piante per millenni.” Una delle principali teorie di chi sostiene gli OGM e i loro benefici per il benessere della persona è che in fondo, nonostante lo sviluppo recente dell’industria genetica, l’incrocio di piante e qualità differenti in fin dei conti avviene dall’inizio dei tempi. Il grano coltivato dalla civiltà Maya era notevolmente differente da quello odierno, esattamente come i primi antenati di frutti mediorientali come pesche e albicocche o sudamericani come pomodori e banane. L’incrocio delle specie, certamente più lento della modificazione genetica ma comunque efficace nel complesso, ha contribuito alla sopravvivenza di determinati “geni” e allo sistematico “scarto” di altri, un’intuizione che precede molto la genetica stessa e gli esperimenti sui fiori dei piselli condotti da Gregor Mendel. “Nonostante il fatto che numerosi panels scientifici nazionali e internazionali hanno concluso che il cibo prodotto attraverso la procedura transgenica è sano esattamente quanto il cibo prodotto con altre metodologie e che quegli agenti patogeni di origine alimentare mettono molto più a rischio la salute umana, storie volte ad incutere timore continuano a dilagare nei media e interrogativi continuano a venire posti riguardo all’adeguatezza dei sistemi correnti di regolazione per determinare la salute dei nostri cibi, transgenici o no.” Secondo un altro articolo riguardo l’accettazione pubblica della biotecnologia applicata alle piante e delle colture OGM si legge sostanzialmente come lo scetticismo sia generalmente dovuto ad un elevato livello di ignoranza riguardo gli OGM, cosa che a sua volta tra origine da una sostanziale mancanza di dialogo tra il mondo scientifico e il pubblico di massa. Le motivazioni principali che evidenzia sono infatti : una mancanza di informazione riguardo il processo di modificazione genetica in sé stessa (che prevede in estrema sintesi l’individuazione di un gene utile in un alimento e il suo inserimento nel corredo genetico di un altro), cosa che automaticamente “induce ad un incertezza riguardo i rischi e i benefici dei cibi OGM, e quindi ad un rigetto della tecnologia”. In secondo luogo giudizi negativi formulati a priori, prima di ricevere informazioni aggiuntive sull’argomento modifica la volontà di accettarle veramente o meno, soprattutto perché sembra essere un fattore determinante l’importanza personale che si da alla “naturalezza” di un prodotto. L’influenza dei media inoltre può produrre inoltre i maggiori cambiamenti nell’opinione pubblica, sempre più terrorizzata dall’invasione di prodotti e culture straniere. Alcuni consumatori si preoccupano per il destino dei piccoli imprenditori agricoli, di un effetto di “inegualità” a livello globale e problemi di tipo “bioetico” sull’utilizzo di animali geneticamente modificati per gli esperimenti, o sul tipo di controllo esercitato. La stessa Nature Biotechnology in parte ammette che “non è stato fatto alcuno sforzo per scoprire se i cibi transgenici hanno effetti di lungo termine sulla salute animale, in parte perché non c’è consenso su come condurre tali esperimenti. Di 100 studi nutrizionali “peer-reviewed” fatti per verificare tali rischi, la maggioranza di essi sono studi a breve termine [90 giorni circa] condotti su un limitato numero di tratti [genetici], che non avrebbero rilevato alcun effetto sulla consumazione a lungo termine degli alimenti GM. Inoltre, in assenza di etichettatura alimentare o di un monitoraggio degli alimenti transgenici, l’impatto dei cibi transgenici su coloro che li consumano non può essere conosciuto”, tuttavia sia “i critici [che] i promotori degli OGM sono concordi sul fatto che gli alimenti geneticamente modificati finora non hanno prodotto alcun effetto negativo, e che il rischio per la salute umana da cibo contaminato da elementi patogeni è molto maggiore di quello degli OGM”. La percezione dei rischi degli OGM varia inoltre a seconda dell’area regionale, del criterio di ’”affetto” verso le differenze tradizionali locali, ma soprattutto a seconda di un criterio di “mancanza di percezione” diretta e tangibile dei benefici degli organismi geneticamente modificati. Paradossalmente i benefici sarebbero inoltre molti, e forse aiuterebbero ad risolvere molti dei problemi che ci troviamo ad affrontare oggi. Secondo Jan M. Lucht i più rilevanti di essi sarebbero: una rete di benefici economici stimati attorno ai $18,8 trilioni nel 2012; prezzi di vendita inferiori; la non necessità di superfici agricole elevate e una notevole diminuzione notevolmente le emissioni di CO2 nell’aria.
Da tutti questi grandi paradossi che hanno caratterizzato l’industria, la distribuzione e la scienza del cibo degli ultimi settant’anni, che qua si è tentato di descrivere con un breve profilo riassuntivo citando diversi spunti di riflessione ed esempi, possiamo ricavare brevemente alcune osservazioni di percorso. Sebbene la coscienza, o almeno l’idea, da parte di un pubblico di massa della necessità di una dieta equilibrata e del benessere del “mangiare sano” sia ormai (almeno nei paesi considerati “moderni”) in qualche modo consolidata, decisamente meno lo è ancora la “via” per giungere ad un tale risultato, o meglio i meccanismi di produzione e distribuzione che permettono ad una enorme abbondanza di nuovi prodotti di arrivare nelle nostre cucine. La reazione ad una politica industriale “sfruttatrice” è iniziata a germogliare a più riprese nella coscienza pubblica, tuttavia in anni recenti le politiche industriali, come ha rivelato l’articolo redatto da Ciconte e Liberti, hanno dimostrato di essere in parte sottomesse a più ampi meccanismi di distribuzione, meno conosciuti così approfonditamente. Inoltre, come abbiamo visto all’inizio, l’alternativa di un cibo completamente “biologico” necessiterebbe uno sfruttamento maggiore dei terreni, cosa che porterebbe automaticamente a riconsiderare il processo industriale (senza arrivare a tipologie di cibi estremamente elaborate e omologate) come in qualche modo necessario per preservare quella costante della “qualità” che sembra ormai inseparabile da quel “benessere morale” che aiuta a mantenere una forma di identità pubblica, comunque in continua trasformazione e forse non per forza, come vedremo tra poco, destinata ad una “omogeneizzazione” su scala globale. Perciò la scienza agroalimentare e l’industria sono fondamentali, sotto adeguata regolamentazione, per trovare le soluzioni che oggi più che mai necessitiamo per risolvere il “problema alimentare”, ma per far ciò occorre forse un maggior grado di comunicazione con quel pubblico immenso, costantemente stimolato da ideali più o meno romantici del “benessere” e dell’”appartenenza” ad una cultura, completamente incurante di una forma di crescita che ciascuna cultura richiede ai propri membri, in qualche modo per non fossilizzarsi e rimanere sostanzialmente incapace di fronteggiare con coscienza le nuove sfide della modernità.

OMOGENEIZZAZIONE E DELOCALIZZAZIONE:
“Prendiamo ad esempio Disneyland Paris. Analisi di mercato degli Stati Uniti stimano che tra il 50% e il 60% dei visitatori nel parco a tema vicino a Parigi avrebbero mangiato in un fast food durante la loro visita. Qualunque sia la validità di questi studi, una caratteristica prettamente europea è stata esclusa dall’equazione: risulterebbe che i francesi, gli italiani e altri turisti europei non sono disposti a mangiare hamburgers alle dieci della mattina o alle cinque del pomeriggio, come solitamente fanno molti americani. Precisamente alle 12.30, questi europei tendono a mettersi in fila fuori dai posteggi dei ristoranti, abbandonando tutte le altre attrazioni. Negli altri orari, i ristoranti rimangono sostanzialmente vuoti. […] I progettisti del parco avevano sovrastimato la flessibilità degli europei e il grado in cui le loro abitudini alimentari erano state ‘destrutturate’.” Pertanto fino a che punto possiamo oggi parlare di una “omogeneizzazione” alimentare e del nostro rapporto stesso con il cibo, come aveva denunciato l’articolo di Agnese Codignola del fatto alimentare.it? Secondo i due autori della “Storia del cibo”, infatti, anche se l’industria alimentare di fatto in parte elimina le differenze e le peculiarità locali, adattando anche le specialità regionali esotiche al mercato globale delle merci standardizzate e omogeneizzate, sarebbe tuttavia un errore pensare che l’industrializzazione della lavorazione del cibo, i miglioramenti nei trasporti, e l’avvento di una distribuzione di massa debbano automaticamente e inevitabilmente condurre all’eliminazione di abitudini e piatti locali e regionali distintivi, tanto che gli europei che vanno nei fast food lo fanno solitamente mantenendo le proprie abitudini e ritmi alimentari, non per forza rinunciando ai propri ideali di convivialità e distacco dal mondo del lavoro. Lo stesso McDonalds, baluardo e primo unificatore di concetti come “sapori di base, trame gratificanti, libertà trasgressive, consenso familiare, convenienza, prezzo, igiene e standardizzazione” nel mondo della ristorazione ha dovuto ultimamente in qualche modo “adeguarsi”, aggiustando i propri menù a seconda delle differenti culture (famoso è l’esempio del “McDonalds kosher” a Tel Aviv o per quanto ci riguarda più da vicino i recenti vari menù di panini ispirati alle differenti cucine regionali italiane che i fast food propongono nel nostro paese). “In Europa storicamente un piatto non è considerato autenticamente tradizionale a meno che le sue radici possano essere tracciate indietro fino alle antiche civiltà agrarie. Pertanto l’industrializzazione è vista come distruttrice delle tradizioni culinarie.”

Tuttavia anche la modernità in alcune situazioni sembra incoraggiare la formazione di specialità locali: è per esempio il caso del “chili di Cincinnati”, considerato tutt’oggi un caso esemplare da laboratorio, e citato sempre da Flandrin e Montanari nella loro opera. Uno infatti potrebbe utilizzare il processo attraverso cui si crea e si diffonde il folklore culinario, in qualche modo permettendo di “imbastire nuove tradizioni” anche all’interno dell’era dell’industria agroalimentare. Il libro redatto da Flandrin e Montanari termina affrontando proprio questo tema: “Se la Coca-Cola è praticamente la stessa ovunque, la sua percezione (o “status”) può cambiare. In Francia la Coca raramente viene bevuta durante la cena, soprattutto dalle generazioni più anziane, mentre la pratica è comune negli Stati Uniti indifferentemente dall’età o dal sesso. E se McDonalds è un posto economico e popolare per mangiare negli Stati Uniti, diventa un ristorante di lusso a Mosca e Pechino. […] Risulta chiaramente per cui come la “standardizzazione” degli atteggiamenti verso il cibo non abbiano ancora passato il punto di non ritorno. Se le modalità di consumo sono diventate sempre più simili, persistono tuttavia delle differenze sostanziali. […] Le tradizioni locali, risultato di un lungo e complesso processo storico, tutt’ora esercitano una forte influenza. Questa diversità è destinata a sopravvivere? Noi pensiamo di sì, anche perché il trend verso un atteggiamento più omogeneizzato tende a portare molte persone a reagire, sviluppando un forte attaccamento alla propria identità. […] Un ulteriore punto ha bisogno di essere tuttavia fissato, ed è bene esplicitarlo anche se può sembrare ovvio: le tradizioni non sono veramente fissate una volta per tutte al momento della loro nascita. Esse vengono create, delineate e definite nel tempo quando le culture interagiscono, si scontrano, si influenzano e assorbono qualcosa l’una dall’altra. […] Ogni cultura è ‘contaminata’ da altre culture; ogni ‘tradizione’ è figlia della storia, e la storia non è mai statica. […] La nostra generazione, come quelle che sono venute prima deve imparare come gestire la relazione tra il passato e il presente, la tradizione e il cambiamento. Farlo in una modalità ragionevole e equilibrata è un segno d’intelligenza.”

Per tirare le somme di questo ampio ragionamento, che ha cercato di coinvolgere i più fronti che tutt’oggi caratterizzano, nel mondo globalizzato, la percezione del cibo a seconda se se ne da una lettura di qualità, economica, politica, ambientale, identitaria, storica o simbolica, abbiamo visto come lo “spauracchio” dell’omogeneizzazione globale, stia in realtà innescando nuovi meccanismi, più o meno protezionistici, che tuttavia, se da un lato non fanno altro che riportare in auge tradizioni nazionali rivisitate e fortemente arricchite da altre, dall’altro si rischia in qualche modo di cristallizzare un processo di trasformazione che tuttavia ha bisogno di essere costantemente supportato e alimentato. Le recenti manovre economiche eccessivamente sfruttatrici e neo-liberiste hanno spesso condotto ad un abbassamento della percezione pubblica dell’utilità delle nuove scoperte scientifiche per porre rimedio ai sempre maggiori disastri ambientali, al crescente fabbisogno del Terzo Mondo, e alle incessanti manovre di “land grabbing” attuate dagli stati per la costante ricerca di nuove risorse e terreni da sfruttare. Sicuramente è necessaria in primo luogo una maggiore informazione pubblica riguardo i reali benefici delle nuove mode “biologiche” (anche se abbiamo visto che un cibo difficilmente sarà realmente ‘biologico’, dato che molte colture hanno subito notevoli trasformazioni nel corso dei secoli), denominazione che altro non sembra riproporre idillicamente, con un tocco di romanticismo, quel “ritorno alla terra” squisitamente arcadico, che più volte nella storia era tornato a denunciare gli eccessi dell’industria capitalistica, ma di fatto inattuabile. Al contrario è impossibile al giorno d’oggi non avvalersi delle nuove scoperte della biologia per far fronte con ragionevolezza, come suggeriscono Flandrin e Montanari, ai proponi che il fenomeno globale ci porta a fronteggiare quotidianamente. Un esempio di esperienza, forse considerabile un suggerimento per risolvere alcuni problemi legati proprio alla crisi qualità e dell’identità che abbiamo visto essere orami inscindibile, che mi ha fatto inoltre molto piacere scoprire sfogliando il web, è ricavata da “il Foglio”. La propongo in conclusione di questo elaborato e per cercare di dare una qualche “concretezza” alle precedenti riflessioni. Questo articolo tratta dell’esperienza lavorativa di Roberto Brazzale, imprenditore vicentino alla guida dell’azienda che produce il “Gran Moravia”. Come afferma l’articolo: “uno dei suoi dati di partenza è che, sul piano alimentare, l’Italia è strutturalmente deficitaria: costretta per forza di cose a importare in ragione di un rapporto tra popolazione e terreni agricoli che è assai più basso, per esempio, di quello della Spagna o della Francia. Se non si ricorresse al cibo prodotto altrove, non si potrebbe nutrire tutti. L’invito a ‘mangiare solo italiano’ è quindi un semplice slogan: e come ogni slogan vale quel che vale.”. Brazzale intervenendo nell’intervista propone per cui di “intercettare la gestione dei flussi di import di cui abbiamo vitale necessità, gestendoli in proprio anziché lasciandoli gestire da altri, in Italia e fuori, risalendo nella catena del prodotto fino a governare i processi produttivi delle materie prime fuori confine.” Insomma Brazzale sembra tradire il “protezionismo all’italiana” e piuttosto che competere sui mercati globali, richiede l’aiuto dell’Europa stessa per tutelare i propri marchi nazionali e massimizzare le vendite che “riescono ad estrarre dai loro ‘prodotti di qualità’. […] Realizzare in Repubblica Ceca il Gran Moravia conduce a cogliere in positivo due sfide: ‘Significa produrre con le nostre aziende e poi importare in Italia quello che altrimenti farebbero altri; e significa mettere a frutto il prestigio della nostra tradizione alimentare e reagire dinanzi all’Italian sounding non in termini difensivi, ma come leva di notorietà e viatico per le produzioni degli italiani.” Brazzale adotta inoltre un particolare punto di vista di produzione industriale molto affine al nostro ragionamento: “L’idea è che una vera conoscenza, un po’ alla volta, possa prendere il posto delle semplificazioni fumose di quanti parlano costantemente di ‘bio’ o ‘dop’ e poi non sanno specificare davvero cosa vi sia dietro queste formule alla moda. La battaglia culturale condotta da Brazzale per un’’economia agroindustriale’ più dinamica è stata spesso occasione di conflitto con i sindacati”, infatti Brazzale rimprovera l’Italia di non essere oggi un paese adatto per gli imprenditori, così come accusa inoltre anche l’Europa di continuare anch’essa a muoversi nella posizione opposta: “L’invenzione dell’euro poggiava su un progetto politico irragionevole, che implicava la costruzione di un uomo europeo omogeneo che, per fortuna, non esisterà mai. Invece che lasciare competere le realtà locali e anzi responsabilizzarle maggiormente attraverso la variabilità del cambio, lasciando a ognuna di esse il compito di far quadrare i propri conti, ci si dirige verso una sorta di Europa-stato che tutti tassa, tutti finanzia, tutto controlla. L’ennesimo errore fatale dell’ennesima ideologia partorita dagli europei.”

di Andrea Pentimone




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