lunedì 8 luglio 2019 - Alessio Di Florio

Alexander Langer e il peso dei viandanti di speranza nel deserto

Alexander attraversò questo mondo con il passo svelto e leggero di chi bramava sempre verso una grande meta. Danzava sui passi più umani, teneri, generosi del pentagramma umano.

E’ ormai diverso tempo che spesso mi torna in mente la favola di Esopo della rana e dello scorpione. E quella frase “è la mia natura”. Come per dire sono nato per un solo gesto e altro non so neanche che esiste. La favola si svolge nel letto di un fiume. Come quello che attraversava San Cristoforo, a cui Alexander Langer scrisse una lettera che sembra la sintesi della sua umanità e del suo impegno. “E’ la mia natura”, pur volendo non posso fare altro. In questi 24 anni tante volte ci siamo interrogati sulla lettera a San Cristoforo e sul commiato all’amica Petra Kelly. E sul suo estremo gesto. E’ forse impossibile non parlare di Alexander rimuovendo quel terribile 3 luglio. Ma davanti agli assalti alla mente della favola di Esopo l’associo sempre a quel che è stato nelle settimane, nei mesi, nei decenni prima. Alla natura di Alexander e del suo pellegrinaggio terreno. Un pellegrinaggio tra tanti luoghi, anche lontanissimi, persone, popoli, drammi e sofferenze. Per placare il tumulto di quella natura.

A fine maggio 1995 un terribile bombardamento colpì Tuzla. Fu spazzata via un’intera generazione, 71 ragazze e ragazzi. Il sindaco della città rivolse un grido di dolore e indignazione verso il Parlamento Europeo, accusato di rimanere inerte di fronte al dramma balcanico. Quel grido cadde in un solo cuore, devastandolo. Quello di Alexander Langer. L’unico europarlamentare che da anni si stava impegnando, arrovellando, sfinendo per fermare il mostro. Eppure il suo cuore fu sconvolto da quel grido, sentì di non essersi abbastanza impegnato, che qualsiasi cosa era meno del minimo necessario. I materassi di piume dormivano, dormirono e continuarono a farlo. Lui, l’unico che non ci dormiva notte e giorno, sentì il peso di quell’accusa. Chiunque lo ha incontrato, anche solo di sfuggita una volta, custodisce nel cuore il suo sorriso, la sua gentilezza, il suo apparire sempre lieto e disponibile. E la domanda può venire spontanea: come può una persona straordinaria e umana, lieta e sorridente, nascondere dentro di sé quell’uragano di sofferenza e stanchezza che era emersa in alcuni suoi scritti e lo portarono al commiato di Pian de Giullari scrivendo solo una parte della frase del Vangelo di Matteo “venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi”? La vita di Alexander, il suo quotidiano impegno con e per l’umanità è la dimostrazione che è possibile. Alexander attraversò questo mondo con il passo svelto e leggero di chi bramava sempre verso una grande meta, gli altri, le più alte aspirazioni dell’animo umano. Danzava sui passi più umani, teneri, generosi del pentagramma umano, avendo sempre una lacrima da asciugare, una persona da assistere, un avvenire da salvaguardare, un presente da riparare e in cui seminare. Non si fermava all’oggi, non indugiava su ieri e neanche sul domani. Il suo sguardo era molto più in là, proteso verso un futuro che solo lui riusciva a guardare. Non per lui, non per apparire, affermarsi, fare carriera. Sono tutte cose più o meno effimere che, presto o tardi, non ci saranno più. Ma se il tuo orizzonte va molto oltre, abbraccia confini sconfinati (mi sia permessa questa apparente contraddizione linguistica) e – sempre mantenendo il pragmatismo di chi qui e ora vuole realmente incidere, perché crede veramente in quel che fa e vuole ottenere risultati concreti (e qua fischino pure tantissime orecchie…) – sente sempre il peso del prossimo da mettere davanti a sé, della persona da sostenere, con cui camminare. E aiutare. Perché era la sua natura, e non aveva altra stella polare. Come lo scorpione. Al contrario del protagonista della favola di Esopo non avvelena ma svelenisce, contrasta l’egoismo con l’altruismo, il carrierismo personale con l’I Care più vero, vibrante, dolce tiranno della vita. Guardando con il cuore, come disse il Piccolo Principe. E quindi con uno sguardo altro, più forte e in un mondo che non conosce meschinità, cattiveria, egoismo, dominio e oppressione dell’altro, barbarie, menefreghismo, violenza e tanto altro. Uno sguardo che, appunto, permette di vedere oltre, che ignora le piccinerie piccolo borghesi che dominano la quotidiana vita sociale.

E qua arriva lo scarto, riprendendo le parole di Alexander dopo il suicidio di Petra Kelly, da quel che vorremo e quello che è, la distanza tra “ciò che si proclama e ciò che si riesce a compiere”, “troppo grande l’amore di umanità e di amori umani che si intrecciano e non si risolvono”. Ed è una distanza che non lascia mai in pace, che arrovella giorno, notte e se ci fosse anche un’altra dimensione temporale, che ti fa scoprire fragile e limitato e di tutto ciò senti una colpa per la quale ti condannerai ogni santo giorno. Perché ogni scarto è un peso, è un limite che senti ingiusto e per cui ti danni, ti senti che non basti, che vorresti essere altro e di più. Una colpa per la quale non ti assolverai mai. Perché non è una tua lacrima, non è qualcosa che riguarda te. Ma gli altri. E allora arrendersi lo consideri ingiusto, le “vittorie” parziali non riesci a non vederle come sconfitte, sofferenza che hai lasciato sulle spalle altrui. Chi perde il lavoro e non sa come far vivere i figli, chi cerca di scampare alle bombe, chi viene sfruttato ogni giorno, le donne che subiscono stupri, botte, sfruttamento, i bambini vittime delle più turpi perversioni (dis)umane non possono scegliere, non possono fermarsi, non possono arrendersi o accontentarsi di un quarto, metà, tre quarti. Esiste forse una guerra un po’ meno guerra? Una bomba un po’ meno bomba? Una carestia che lascia una fame un po’ meno fame? Una povertà assoluta che non è totale? Ovviamente no. E tutto questo impone di non fermarsi mai, di non accontentarsi di filosofie e autoassoluzioni, di un impegno part time o di dire “ma tanto ci ho provato”. Perché i poveri, i deboli, i più fragili, gli emarginati neanche lo vedranno un po’, la metà, il “ma basta il pensiero”. E intorno trovi sempre chi fa finta di consolarti, chi ti giudica, i campioni del “ma chi ti credi di essere? Vuoi cambiare il mondo?” o del “ma che t’importa, ma chi te lo fa fare”. E l’elenco potrebbe continuare per anni. Un elenco che amareggia, che ai pesi dello scarto aggiunge altri pesi. Quelli dell’incomprensione, del sentirsi soli, stranieri, sbagliati, limitati. Ma davanti ai farisei e alle coscienze incoscienti l’unica risposta “è la mia natura”, questo sono e altro non potrò mai essere. Ti guardi nell’animo, ti auto processi, ti interroghi costantemente. E dall’uno e dall’altro versante su di te fai pesare ogni limite, ogni impossibilità, ogni mancanza, ogni cosa.

Guardarsi nell'animo è lo sguardo più difficile e complicato possibile. Perché ci mette a nudo, ci confronta con le nostre fragilità. Ed è forse ancor più faticoso e doloroso metter gli altri davanti a noi, non far soffrire e non imporre le proprie esigenze ma le altre, mettersi in discussione costantemente per il bene altrui. Ma, ancora di più in quest'epoca smarrita, è probabilmente una delle poche strade per recuperare l'umanità e - una parola probabilmente oggi scandalosa e, per questo, ancor più preziosa - la tenerezza. Scandalosa, al pari della generosità e della solidarietà. Che al massimo viene accettata verso chi ci è vicino, chi può restituirci un’utilità, se c’è un tornaconto più o meno personale. In un mondo pieno di volgarità, astio, odio, prevaricazione, offese continue, una guerra totale per l’autoaffermazione, la tenerezza è bandita, è una colpa, è considerata da falliti. In fondo al pozzo si sguazza, e si scivola costantemente quindi c’è sempre la possibilità di approfittare per sopravanzare sugli altri. Perché cercare il sole? Perché voler uscire dal gorgo? Ma poi tutto questo è possibile? E’ possibile vivere così in questo mondo, non trastullandosi nel nulla cosmico ma quotidianamente impegnandosi a riparare questo mondo, a realmente avere degli obiettivi di giustizia, solidarietà, di sollievo della sofferenza, del dolore, dell’oppressione e della morte (carnale, morale, sociale)? I 49 anni, 4 mesi e 9 giorni dell’esistenza terrena di Alexander ci dicono di si, il suo tristissimo commiato ci interroga. E in mezzo il deteriorarsi di tutto (“troppo tracotanti si riaffacciano durezza sociale, logica del più forte, competizione selvaggia. Davvero non si sa dove trovare le risorse spirituali per cimentarsi su un terreno sempre più impervio”), il tribunale quotidiano che condanna ripetutamente, i fallimenti e i limiti che schiacciano il cuore, le lacrime altrui che diventano sempre più le tue e ti prendono a schiaffi perché non riesci ad asciugarle, il dolore che ci circonda che scava dentro implacabile come una talpa, il peso della coerenza e dell’incomprensione, amarezza, scontri, distanze che crea. Ma alfine la risposta è sempre quella “è la mia natura”. E da questa gabbia, dolce e dorata, pesante e faticosa, non ne esci. E non vuoi uscire. “Proseguite in ciò che è giusto”. E’ possibile? E’ realizzabile? Ha senso? La risposta in realtà non c’è. Ma il cammino s’impone. E va fatto. Chi ha vissuto le peggiori ingiustizie, barbarie, violenze, oppressioni, le future generazioni che si troveranno il fardello delle follie attuali, chi soffre, è emarginato, debole, fragile, impoverito, chi non conosce altro che lutto e dolore non può scegliere. Ed omologarsi all’inquinamento e all’avvelenamento dei pozzi è un’altra natura. Il cammino terreno di Alexander si è fermato a Pian de Giullari. Ma può, anzi deve, continuare. E’ la natura.

Alessio Di Florio  




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