giovedì 20 febbraio - UAAR - A ragion veduta

Ahi, ahi, Ayaan!

La scrittrice Ayaan Hirsi Ali (già paladina dell’ateismo) ha annunciato la sua conversione al cristianesimo, che considera uno strumento politico contro islam e ideologia woke. Paolo Ferrarini affronta la questione sul numero 6/2024 di Nessun Dogma.

«Chissà cosa penserebbe oggi di me Christopher Hitchens». Questa specie di excusatio non petita è l’unico vago accenno di consapevolezza della dissonanza che deve pur esistere in qualche angolo della mente di Ayaan Hirsi Ali, dopo la sua sconcertante conversione al cristianesimo annunciata un anno fa sul sito inglese di attualità politica UnHerd, pietra tombale di una lunga e formidabile carriera come paladina del pensiero razionale, a fianco dei quattro cavalieri dell’ateismo.

Al tavolo dell’incontro organizzato a Londra il 12 settembre scorso da Intelligence Squared, ancora vendono copie del libro che l’ha lanciata alla fama internazionale, L’infedele, titolo che ora stride col suo essere diventata una “fedelissima” cristiana. Un incontro a cui decido di partecipare proprio per cercare di dare un senso a questa inaspettata novità, e per elaborare lo sconforto di avere per anni ammirato la sua personalità e seguito con interesse il suo attivismo. Le domande che mi girano in testa sono molte.

 

Perché è successo? Che tipo di cristiana è diventata? Che ne è stato di tutti gli argomenti per l’incredulità, che pur conosce alla perfezione, avendoli divulgati per due decenni? Si trattava di una fiction, di una postura non autentica? Sono stato preso in giro? E allora Hitchens, e Dawkins, e Harris? Hanno tutti preso un abbaglio nel promuovere e lavorare a fianco di una persona che con il senno di poi solleva dubbi di opportunismo?

Eppure, atea Ayaan lo è stata davvero. Proprio ne L’infedele, racconta di essere approdata all’incredulità come conclusione inevitabile di un ragionamento sulla propria identità di musulmana nel periodo immediatamente successivo ai fatti dell’11 settembre 2001. Mentre gli accademici e i commentatori dell’epoca, specie quelli di sinistra, si scapicollavano a fabbricare analisi e interpretazioni che evitassero di puntare il dito direttamente contro l’islam come religione, ad Ayaan appariva invece evidente che nella realtà dei fatti il nucleo del problema risiedesse proprio lì.

Ridicolo pensare che la violenza fosse frutto di una guerra di classe tra ricchi e poveri, quando gli attentatori erano istruiti membri di una élite benestante, ridicola l’interpretazione politica che gli attacchi avessero qualcosa a che fare con l’oppressione dei palestinesi sotto Israele, ridicoli gli “arabisti” che liquidavano i terroristi come mele marce all’interno di una gloriosa tradizione dedita fin dal medioevo alla promozione della pace e del progresso scientifico: secondo Ayaan, decine di migliaia di devoti musulmani, in tutta l’Africa, il Medio Oriente e persino in Europa ragionavano nello stesso modo di questa «cricca di architetti frustrati di Amburgo» e, anche senza supportare attivamente l’attacco all’America, enormi masse di persone formate nelle moschee di tutto il mondo quantomeno lo approvavano. C’entrava poco la frustrazione, e molto la fede.

Ayaan riprende per l’occasione in mano il Corano e la sunna del profeta Maometto, per verificare i passaggi terrificanti citati da Osama Bin Laden come fondamento della sua crociata contro l’occidente infedele, arrivando così a mettere in dubbio l’autenticità di quella che doveva essere la parola di dio contenuta in quei documenti. La conclusione che il Corano non fosse un libro sacro ma espressione di un pensiero umano la porta a sua volta a dubitare dell’esistenza dell’aldilà, e in ultima analisi di dio stesso, una volta superate le residue paure irrazionali di finire all’inferno.

Fra le poche voci che in America si allineano col pensiero di Hirsi Ali nel non fare sconti all’islam, rifiutando di giustificarlo aprioristicamente, ci sono naturalmente quelle di Sam Harris e Christopher Hitchens. L’endorsement di Hitchens, con cui sembra condividere un’affinità politica per certi aspetti identificabilmente di destra, è quello più forte e convinto. È lui il primo a difenderla dalle critiche che le vengono via via rivolte (per esempio, di aver tradito le sue radici culturali), e la loda in più occasioni come una sua personale eroina, nonché come «la più grande intellettuale uscita dal continente africano».

Il titolo dell’incontro a Londra, a ben vedere, dice già tutto: “Ayaan Hirsi Ali e la sua lotta per salvare l’occidente”. L’idea di salvare l’occidente è un concetto vecchio, nebuloso, flessibile, che si presta facilmente a intenti propagandistici, recentemente invocato anche dal presidente di Israele Isaac Herzog a giustificazione delle operazioni militari in corso.

Nel caso di Ayaan, nella sua reincarnazione devota, si evince subito, e lei stessa spiega chiaramente, come il cristianesimo sia nella sua mente prima di tutto una strategia politica, un’arma culturale scelta tatticamente per meglio combattere i nemici ideologici, laddove l’ateismo non offrirebbe strumenti adeguati a farlo. Citando come fonte il libro del divulgatore storico Tom Holland, Dominion, racconta di aver sposato la tesi che il cristianesimo permei e informi tutti i fondamenti della civiltà occidentale: l’etica, la morale, la libertà di stampa, di coscienza, i concetti stessi di laicità, di liberalismo, di scienza… persino l’omosessualità.

Tutto ciò che superficialmente ci appare secolare per antonomasia, in questa lettura avrebbe le proprie origini nella cultura giudeo-cristiana. Negare queste radici, rifiutare il cristianesimo attraverso la critica ateo-razionalista, significa secondo Hirsi Ali lasciare un “God hole”, un vuoto di spiritualità che anziché inaugurare un’età della ragione e dell’umanismo come predicato da Bertrand Russell e dai cavalieri del neoateismo, verrà colmato da altre, pericolose, forme di pensiero irrazionale che metteranno gravemente a rischio le libertà conquistate. Ergo, “non possiamo non dirci cristiani”.

Questa linea di ragionamento, promossa dai sostenitori del cosiddetto “nuovo cristianesimo politico” ha ben poco di nuovo e originale, e viene facilmente impugnata da diversi intellettuali come Nick Cohen, il quale ricorda in un suo articolo che postulare in chiave deterministica una faglia culturale tra un occidente cristiano e un oriente musulmano è una mossa considerata alquanto problematica già da quando Samuel P. Huntington aveva per la prima volta proposto l’ipotesi dello “scontro delle civiltà”, nell’omonimo saggio del 1996.

Per quanto seducenti e particolarmente utili a creare efficaci slogan politici (esportare la democrazia a popoli non geneticamente in grado di produrla autonomamente) le spiegazioni totalizzanti basate sull’essenzialismo culturale non sono certo in grado di rendere conto dell’estrema complessità della realtà.

Ma soprattutto, nel particolare contesto storico in cui ci troviamo, è veramente implausibile (e alquanto ironico) sostenere che la cultura giudeo-cristiana sia la fonte e il bastione delle libertà e dei valori occidentali che Hirsi Ali sostiene di difendere, quando la democrazia stessa viene disprezzata e fatta ferocemente a brandelli da due dei principali blocchi cristiani al mondo: gli ortodossi rappresentati da Putin in Russia e i protestanti rappresentati da Trump negli Stati Uniti.

Particolarmente interessante è ascoltare dalla bocca di Hirsi Ali chi sarebbero oggi i temuti nemici ideologici da combattere. Se negli anni di professato ateismo il suo focus principale era stato l’islam, producendo anche critiche e contributi positivi sottoforma di proposte riformiste (vedi l’ottimo libro Eretica – Cambiare l’islam si può), post conversione, il tema su cui Ayaan insiste maggiormente è diventato un altro: la cosiddetta “ideologia woke”, uno spettro che dilaga tra le nuove generazioni, indebolendone la fibra morale.

Lo spauracchio del gender, in particolare, è assurto a simbolo di tutto ciò da cui l’occidente deve essere salvato, il fondo morale toccato da una civiltà che avrebbe perso la bussola. Il supposto eccesso di progressivismo è quindi visto come la fonte di tutti i mali della società, e la ricetta che Hirsi Ali propone è nientemeno che la reintroduzione della religione cristiana nei curricula scolastici anche statali (naturalmente, dopo aver messo al bando le scuole musulmane).

L’insofferenza di Ayaan per la cultura di sinistra emerge nella sua forma più cruda quando, nel momento più cringe dell’incontro, le viene chiesto se nell’elezione presidenziale americana si sarebbe idealmente schierata a favore di Harris o di Trump. Non senza imbarazzo, dopo una dovuta premessa sulla necessità di distinguere la politica dal politico, ha confermato senza mezzi termini di supportare Trump.

Ma il problema forse più irredimibile per chi propone argomenti puramente sociopolitici per giustificare la propria adesione a un credo religioso è che questo approccio suona tragicamente slegato da qualsiasi valorizzazione o apprezzamento del vero, dal momento che ogni affermazione di peso scientifico viene in questo contesto sacrificata sull’altare della presupposta utilità della fede.

Per loro, il mito fondante di una civiltà deve essere magicamente esente da considerazioni logiche e dalle condizioni di verità applicate a qualsiasi altro ambito dello scibile. Impossibile quindi ottenere una risposta chiara, non farfugliata, a domande come «Credi realmente, fattualmente, nella verginità di Maria?» da moderni promotori del cristianesimo culturale, o neoteisti, come Konstantin Kisin, o Jordan Peterson.

Nel loro porsi ambiguamente rispetto alle credenze effettive che sottoscrivono («è del tutto irrilevante ciò che credo io», «non si tratta di me», «tu vuoi solo usare la mia risposta allo scopo di smontare il mio argomento»), riportano alla memoria le contorte posizioni di moda qualche anno fa di certi atei devoti nostrani. È per questo motivo che Richard Dawkins ha inizialmente reagito alla notizia della conversione di Hirsi Ali commentando: «Cara Ayaan, tu non sei più cristiana di quanto lo sia io».

Tuttavia, pressata in un secondo momento a chiarire questo punto, Hirsi Ali si è rivelata ideologicamente più affine a un Magdi Allam che a un Giuliano Ferrara. La sua conversione non è stata soltanto un’astratta presa di posizione, ma ha soddisfatto anche un bisogno psicologico, la necessità di colmare quel “God hole”, quel percepito “vuoto spirituale”, anche a livello personale, dopo avere attraversato un periodo di forte depressione e incapacità di dare senso alla propria vita.

Laddove fiumi di alcol, psicologi e medicinali hanno fallito – racconta – il messaggio salvifico, d’amore, del cristianesimo le avrebbe ridato la serenità, portandola a concludere di essere all’epoca saltata sul carro dell’ateismo troppo frettolosamente, anche in conseguenza dell’assidua frequentazione di “intelligenti e simpatici” amici non credenti.

Ora, sostiene, ha capito che esistono “piani di percezione” altri e separati da quello della razionalità, e questo le permette di scegliere di credere nelle affermazioni straordinarie di una religione che un tempo prendeva in giro a fianco dell’amico Richard Dawkins. Nel faccia a faccia proprio con Dawkins del tre giugno scorso, il disagio nel toccare questo argomento è evidente nel balbettio delle risposte e nella fretta di chiudere il discorso con un lapidario «let’s agree to disagree» («concordiamo di discordare»).

Alla fine dell’incontro londinese del 12 settembre, il disagio è stato pienamente trasmesso anche alla parte del pubblico rimasta profondamente scettica sull’idea di mettere islam e cultura woke sullo stesso piano per combatterli con una mentalità da crociata religiosa. Ce ne andiamo allora riflettendo su quanto sia importante concentrarsi sempre e solo sulle idee, evitando la tentazione di mettere le persone su un piedistallo.

Una lezione, del resto, già imparata: non è certo il primo caso di alleato che col tempo ha adottato posizioni ripugnanti; penso per esempio a Maajid Nawaz, di cui l’editore Nessun Dogma ha anche tradotto un libro, il quale negli ultimi anni è diventato un personaggio piuttosto tossico. Dopo la vittoria di Donald Trump nel 2016, ha ripetutamente espresso commenti a supporto di alcune controverse politiche, fino a dichiarare che l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 sarebbe stato messo in atto dalla sinistra antifascista anziché dalle gang del movimento Maga sobillate da Trump stesso.

Durante la pandemia ha poi fatto circolare teorie della cospirazione sulla Cina, che avrebbe escogitato tutto al fine di indebolire i Paesi occidentali attraverso l’imposizione dei lockdown, e ancora, che i vaccini sono inutili o dannosi, e che il sistema immunitario naturale è sufficiente a sconfiggere il virus.

Le lezioni si imparano, ma l’amarezza rimane.

Paolo Ferrarini

 


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