venerdì 10 marzo 2023 - UAAR - A ragion veduta

Affinità (poche) e divergenze (molte) tra la compagna Murgia e noi

Nel suo ultimo libro God Save the Queer, la scrittrice Michela Murgia vorrebbe conciliare la fede con il femminismo, non solo fornendo ai credenti strumenti per affrontare le contraddizioni con la dottrina ma affermando pure che il femminismo abbia bisogno del cristianesimo. Maria Pacini dà una lettura laica della questione, sul numero 1/2023 della rivista Nessun Dogma

Murgia ha detto che è un libro per credenti, ma l’ho letto ugualmente. God Save the Queer, cioè “Dio salvi il queer”, questo il titolo tradotto in italiano dell’ultimo libro di Michela Murgia, scrittrice, divulgatrice e studiosa di teologia, che, dopo l’ultimo libro sulla religione Ave Mary, pubblicato nel 2011, oggi torna a parlarne per rispondere alla domanda che molte persone le rivolgono quando apprendono della sua fede cattolica, cui lei risponde «sì» fin dall’introduzione: «riesci a tenere insieme la tua fede cattolica e il tuo femminismo?».

Questa è la questione con cui l’autrice apre questo saggio dall’ambiguo titolo, tratto dall’inno nazionale britannico e diventato poi uno slogan, e dal ben più inquietante sottotitolo: “Catechismo femminista”. Un libro che si pone l’obiettivo di fornire ai credenti strumenti per affrontare alcune contraddizioni tra precetti dottrinali, fede e coscienza personale in merito a questioni come eutanasia, aborto, fecondazione assistita eccetera.

L’intento del presente articolo è di dire qualcosa sul femminismo e sull’ateismo. Inoltre, siccome mi rifiuto per onestà intellettuale di giudicare avventatamente i temi di discussione e di respingere argomenti senza avere motivi validi per farlo, indicherò brevemente una delle tante fragilità della tesi principale di Murgia che anticipo: Gesù è queer per cui il femminismo ha bisogno del cristianesimo.

La realtà di fondo da cui l’autrice parte, cioè che la chiesa cattolica sia un’istituzione patriarcale che perpetua svariate tipologie di oppressione, è del tutto condivisibile: i valori e i precetti promossi dalla chiesa cattolica sono in contrasto con il progresso della società e della civiltà, e sono in aperto conflitto con le tematiche legate all’autodeterminazione e alla libertà degli individui.

Le persone cattoliche che si sentono respinte dalla propria comunità e/o discriminate al suo interno, avvertono il bisogno di una spinta all’inclusione e al rispetto della propria dignità nella comunità di fedeli e tra loro è diffusa la speranza in un rinnovamento della chiesa.

Gli strumenti e le soluzioni proposti a tal riguardo da Murgia sono tuttavia discutibili sotto vari aspetti. Non desidero tediare con il ritornello delle onnipresenti petizioni di principio e cherry picking che Murgia applica a tappeto nel suo libro, tipico dei fedeli che utilizzano citazioni dai loro testi sacri per corroborare le proprie posizioni e che nei dibattiti degenera spesso in confronti simili a bambini che litigano lanciandosi le caccole.

Non mi soffermo neppure sugli anacronismi (l’uso astorico dei concetti) che pullulano in tutto il testo. Questo accade perché generalmente i fedeli non considerano il loro testo sacro con il dovuto spessore storico e il contemporaneo concetto di queer in questo libro fa la fine del nero: va un po’ su tutto, anche Gesù.

Ecco, secondo Michela Murgia «la queerness come pratica della soglia è adatta a ragionare di un Dio trino che nella Persona di Cristo ha detto ai suoi: ‘Io sono la porta’».

Faccio un passo indietro sui concetti di queer e queerness, per poi tornare sulla “pratica della soglia” e la metafora della porta, cardine di gran parte della tesi di Murgia.

Esistono molte teorie queer, alcune in contraddizione l’una con l’altra e spesso criticate per essere piene di concetti complessi. Molti teorici del queer affermano che il concetto stesso rifiuta la definizione, citando Nikki Sullivan: «è una disciplina che rifiuta di essere disciplinata». Ciò che generalmente possiamo affermare della parola queer è che originariamente era riferita alla stranezza e alla diversità delle persone, utilizzata come termine dispregiativo.

Successivamente è stata rivendicata in senso positivo: può essere usata come “termine ombrello” per indicare le persone non eterosessuali o cisgender (accezione che Murgia già esclude: «i concetti di omosessualità e bisessualità sono e restano categorie del binarismo eterosessuale, se non altro perché devono affermarsi in sua contrapposizione»), oppure per persone che contestano il mainstream Lgbt+.

Inoltre può connotare un modo di sfidare le norme sul genere e la sessualitàì attraverso il pensiero e l’azione. Quest’ultima accezione è quella presa in considerazione implicitamente da Murgia. A prescindere da questo, ciò che in generale l’uso della parola queer ha in comune con tutte le accezioni di essa è la politica anti-identitaria e transfemminista che esprime.

Murgia, all’inizio del saggio, dichiara che questo rifiuto di definizione «da un dentro e da un fuori», cioè la queerness, lei lo chiamerà anche “pratica della soglia”: essere, usando le sue parole, da una parte e dall’altra e stabili in nessuna delle due, non essere definibile e comprensibile. Non argomenta com’è che è arrivata a riformulare la queerness come “pratica della soglia”, pazienza.

Michela Murgia analizza la “pratica della soglia” nella figura di Cristo per tenere insieme fede e femminismo, giustificando ciò con un passo del Vangelo in cui Gesù parlando di sé dice «io sono la porta delle pecore», l’uscio che divide un ovile dal pascolo, cioè, continua Murgia: «la persona che rende possibile praticare la soglia come spazio vitale».

Però Gesù non dice «io sono la soglia»: Murgia muta la metafora con cui Gesù nel Vangelo si definisce “porta” sostituendola con “soglia”. Basta poco per comprendere che l’elaborazione concettuale della queerness come “pratica della soglia” applicata a Gesù come “porta” non sta in piedi per vari motivi: l’anacronismo, la petizione di principio, ma anche per una metafora sbagliata: la soglia sì, la si attraversa, ma la porta si apre e si chiude, pure a chiave.

La soglia unisce di fatto due o più ambienti, la porta li può anche dividere. Vero è che “soglia” e “porta” non sono in assoluta relazione dicotomica e in letteratura sono figurativamente intercambiabili. Ma un saggio non è un romanzo.

Non sorprende che il tentativo di Murgia di proporre il cristianesimo in salsa queer, e viceversa, sia naufragato anche su una semplice metafora: far combaciare queerness e Gesù espone al rischio che chiunque abbia una minima base filosofica alle spalle noti i punti di sutura del mostro teorico che non si riuscirà ad animare.

Per Murgia dire che Gesù è queer è fondamentale per dichiarare che: «il femminismo ha bisogno del cristianesimo» come ha fatto durante la puntata del 28 novembre scorso nel programma radiofonico Fahrenheit nella quale parla del libro, che termina con: «accettare la queerness come prassi cristiana significa riconoscere che il confine non ci circonda, ma ci attraversa, e che quel che avvertiamo come contraddizione è in realtà uno spazio fecondo di cui non abbiamo ancora compreso il potenziale vitale».

Insomma, secondo Murgia il femminismo ha bisogno del cristianesimo, tuttavia le basi teoriche su cui l’autrice pensava di poter validare quest’affermazione non reggono, senza sorprese.

C’è però una questione più rilevante di Gesù-porta-soglia-queerness, quella del femminismo.

L’autrice associa e sovrappone femminismo e cattolicesimo in quanto, secondo lei, entrambi sono «pratiche soggettive con conseguenze comunitarie non pensate per esaurirsi individualmente», parafrasi del celebre slogan femminista “il personale è politico” di Carol Hanisch, che Murgia stessa utilizza come metodo.

Carol Hanisch nel suo paper The Personal Is Political pubblicato nel 1962 scrive: «il motivo per cui partecipo a questi incontri non è quello di risolvere un problema personale. Una delle prime cose che scopriamo in questi gruppi è che i problemi personali sono problemi politici. Non ci sono soluzioni personali in questo momento. Esiste solo un’azione collettiva per una soluzione collettiva». (Traduzione mia)

In questo scritto Hanisch fa riferimento ai gruppi di autocoscienza femminili degli anni sessanta e afferma che ciò che le donne ritenevano essere un problema personale in realtà era un problema politico in quanto implicava soluzioni e azioni collettive: «non ci sono soluzioni personali in questo momento». In altre parole: non esistono soluzioni individuali a problemi politici.

A volte, ripetere gli slogan femministi come l’“Ave Maria” snocciolandoli nelle piazze e nei dibattiti per darsi un certo tono, provoca l’effetto di deformarne il senso. “Il personale è politico” non significa “ogni questione personale è anche una questione politica”, per cui non tutti i problemi personali prevedono soluzioni collettive. Tra questi ultimi c’è anche la fede.

Murgia si spende molto nell’intento di far coincidere l’aspetto comunitario che lega i fedeli tra loro e la prospettiva collettiva del femminismo, ma le questioni quali aborto, eutanasia, diritti Lgbt+ per le quali lei tenta di offrire strumenti di conciliazione con la fede attraverso la teologia, sono questioni politiche, perché esigono soluzioni collettive.

Conciliare la propria fede e l’insieme dei precetti retrogradi della chiesa cattolica con il progresso civile non prevede soluzioni collettive. Questo è un esempio di questione personale che rimane tale poiché ciascuna persona credente avrà la libertà, secondo la propria coscienza, di percorrere una strada verso la conciliazione o meno dei conflitti che nel corso della vita incontrerà tra i valori propri e quelli della religione cui appartiene.

In sintesi: in prospettiva femminista il problema della conciliazione tra fede cattolica e femminismo è e rimane personale poiché la sua soluzione non è collettiva, e non può esserlo, altrimenti ne andrebbe della libertà di coscienza di ciascun individuo.

A proposito di libertà di coscienza, nel libro c’è un capitolo dal titolo “Il cristianesimo senza Cristo”, in cui l’autrice critica duramente quelli che chiameremmo integralisti religiosi e movimenti no-choice, ma che invece Murgia chiama: «esercito di spietati atei devoti che praticano la morale altrui più volentieri della propria».

L’autrice ignora volutamente il fatto che i movimenti no-choice sono alimentati e composti da persone che si professano cristiane. Murgia probabilmente è rimasta alla concezione di ateismo che insegnano al catechismo: gli atei credono che non esistano né dio né la moralità, né dio né il senso della vita, né dio né la bontà dell’uomo. In altre parole: se sei ateo sei cattivo, se sei credente sei buono; se incontro un credente cattivo allora significa che in realtà non è credente, è ateo.

Ripasso per Michela Murgia: l’ateo è la persona che non crede nell’esistenza di dio, degli dèi e delle realtà soprannaturali. L’ateo è quella persona che verosimilmente, leggendo God Save the Queer esperisce un’esclusione costante dal piano comune dell’argomentazione razionale perché non può condividere le personalissime esperienze di fede che Murgia enumera a sostenere le sue tesi.

Ma lei lo aveva detto: è un libro per credenti. Un libro che ha la pretesa però di dire che «il femminismo ha bisogno del cristianesimo» e che «la questione della salvezza è la vera cartina al tornasole, se si vuole andare alla ricerca dei punti di convergenza tra la fede e i movimenti di lotta delle categorie discriminate».

No, il femminismo non ha bisogno del cristianesimo e, aggiungo, le lotte delle categorie discriminate non hanno bisogno di salvezza, ma di giustizia. Per questo l’unico spazio potenzialmente inclusivo e intersezionale è quello della laicità, spazio in cui le convinzioni e credenze individuali non si impongono politicamente. La fede è un fatto personale cui si ha diritto, esattamente come si ha diritto a non averne nessuna; la fede e la teologia non elaborano soluzioni collettive a problemi politici. Il femminismo, al contrario, fa proprio questo. Insomma, dio e salvezza per chi ci crede, giustizia e libertà per tutti.

Maria Pacini

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