A trenta anni dalla morte di Henri Laborit

Trenta anni fa moriva lo scienziato Henri Laborit, scopritore di alcuni aspetti essenziali del comportamento umano e delle sue profonde origini neurofisiologiche.
E’ grazie anche alle scoperte di Laborit che oggi, per la prima volta nella sua storia, l’uomo è in grado di conoscere e comprendere razionalmente il meccanismo e le motivazioni di molti dei propri comportamenti individuali e sociali. Per introdurre Laborit userò le stesse parole con le quali lo scienziato si autopresenta, ironicamente, nel prologo del film Mon Oncle d’Amerique; il film, realizzato da Alain Resnais su idea e sceneggiatura dello stesso Laborit, fu vincitore della palma d’oro al festival di Cannes del 1980. “Henri Laborit, nato il 21 novembre 1914 ad Hanoi; padre medico dell’esercito coloniale francese, liceo Carnot a Parigi; scuola principale del Servizio si Sanità della Marina e facoltà di medicina di Bordeaux; interno e chirurgo ospedaliero, direttore dei laboratori di ricerca del Servizio di Sanità della Difesa; introduce in terapia la clorpromazina (il primo “tranquillante”), l’ibernazione artificiale ed altri farmaci ad azione psicotropa; ricerche sulla reazione dell’organismo alle aggressioni che hanno aperto nuove possibilità per l’anestesia e la rianimazione; sposato, cinque figli, premio Albert Lasker dell’American Health Association; sport equitazione, vela; legione d’onore, croce di guerra 1939-1945; riconoscimenti accademici. Originario della Vandea, la regione cui sono state inflitte Libertà, Uguaglianza e Fraternità facendo cinquecentomila morti! Sono anche abbonato al gas ed all’elettricità di Francia e perfettamente adattato a questa socio cultura di cui godo i vantaggi”.
Laborit iniziò le indagini sul comportamento umano quasi casualmente, cercando verifiche e conferme di alcune sue osservazioni che lo turbavano ed incuriosivano al tempo stesso. Durante il secondo conflitto mondiale lavorava in sale operatorie militari in Indocina come chirurgo e talvolta come anestesista; mise a punto e sperimentò alcuni complessi farmacologici tesi ad irrobustire il paziente nel suo percorso post operatorio per innalzarne le difese immunitarie; eravamo ancora in un’epoca priva di significative terapie antibiotiche e la setticemia era il pericolo principale contro cui lottavano i sanitari sui campi di battaglia. Sorprendentemente, cominciò a constatare che proprio i pazienti in migliori condizioni psicofisiche, sui quali investiva farmacologicamente per innalzare le difese, erano molto più esposti allo shock post operatorio di altri pazienti in cattive condizioni, spesso incoscienti, ai quali pertanto non praticava alcun intervento teso ad irrobustire le difese, a causa delle presunte scarse possibilità di recupero. Inizialmente pensò che ci fosse qualcosa di sbagliato nelle sue terapie sperimentali, ma presto si rese conto che il margine di recupero dei suoi operati, aumentava esponenzialmente proprio in quei pazienti scarsamente consapevoli e coscienti durante i primi giorni del decorso post operatorio. E trovò conferme a questo anche quando osservò che pazienti con importanti stati infiammatori, una volta intorpiditi da robuste terapie antistaminiche, di nuovo risultavano molto più attrezzati a superare le insidie di shock post operatori. Iniziò a contattare colleghi ed esporre le proprie osservazioni trovando molti riscontri: in effetti sembrava esserci un nesso di causa-effetto tra lo stato di incoscienza dei pazienti e le loro possibilità di recupero.
Finita la guerra Laborit si concentra sulla ricerca spaziando in campi diversi e cercando una visione d’insieme tra diverse discipline. Lo scienziato transalpino compie scoperte fondamentali nel campo della farmacologia pur non essendo un farmacista, nelle neuroscienze pur non avendone specializzazione, così come in fisiologia, neurofisiologia, neuroanatomia, sociologia, filosofia. Laborit partecipa in prima persona alle ricerche sul sistema nervoso che portano tra gli anni Cinquanta e Settanta ad individuare alcuni tasselli essenziali per la comprensione più profonda del modo di operare del nostro cervello e l’origine biologica dei comportamenti. A titolo di esempio ricordo il modello del cervello tripartito in tre livelli funzionali proposto da P. Mc Lean, la scoperta del fascio del premio (Medial Forebrain Bundle) da parte di J. Olds e l’individuazione del fascio della punizione (Periventricular System) ad opera di A. De Molina.
Nel 1958 Laborit fonda il laboratorio di “aggressologia” o “eutonologia” all’interno del compound dell’ospedale “Beaucicaut” di Parigi. Il neologismo di questa disciplina sta ad indicare gli studi per valutare le risposte di ogni essere vivente a tutti i fattori percepiti come pericolo e la conseguenti strategie di risposta per riuscire a “vivere bene nella propria pelle”. La struttura è costituita da un insieme di laboratori di neurofisiologia e biochimica che studiano, a livello clinico, teorico e sperimentale, le perturbazioni provocate negli esseri viventi da qualsiasi forma di energia e le conseguenti possibili correzioni. Nell’intento di svelare il mistero dell’alta vulnerabilità alle infezioni dei suoi pazienti militari, deceduti pur se operati in buone condizioni psicofisiche, approfondisce gli studi di Hans Seyle, un medico viennese che nel 1936 aveva pubblicato uno studio che evidenziava il progressivo squilibrio ormonale, osservabile attraverso prelievi ematici, in animali ed individui sottoposti a condizioni di stress prolungato. Seyle aveva constatato come l’iniziale risposta adrenergica ad uno stress, rappresentato da un pericolo o comunque un problema di adattamento all’ambiente, si trasformasse progressivamente in uno stato depressivo qualora le risposte comportamentali messe in atto si fossero dimostrate inefficaci. Aveva inoltre rilevato una significativa modificazione degli equilibri ormonali che accompagnavano l’insorgenza della depressione, in modo particolare un innalzamento progressivo dei glicocorticoidi surrenali. La ricerca in questo settore porta Laborit a conseguire la scoperta più entusiasmante e rivoluzionaria della propria carriera: i meccanismi di inibizione e le loro conseguenze sui comportamenti individuali e di gruppo.
Fino ad allora si era ritenuto che il sistema nervoso progettasse e gestisse l’adattamento all’ambiente esclusivamente attraverso l’azione; questa si esplica tramite comportamenti, alcuni innati, altri appresi, tutti caratterizzati dall’atto di agire nel e sull’ambiente. Gli esperimenti condotti da Laborit aprono ad una nuova prospettiva quando individuano una strategia diversa a quella dell’azione per superare difficoltà di adattamento. Quando un essere vivente non può né lottare né fuggire, in quanto ogni azione risulterebbe inefficace, si inibisce. In sostanza è come se si auto sedasse con la finalità di risparmiare energia per attendere in vita un mutamento del contesto ambientale e, di nuovo, agire con successo. Facciamo un esempio. Un uomo riesce ad evitare l’attacco di un branco di lupi arrampicandosi su un albero. I predatori rimangono in attesa ai piedi della pianta. La possibilità di salvezza per la preda passa nella capacità di saper aspettare più dei predatori. Per far questo con successo deve ridurre il proprio consumo energetico, risparmiare le forze e, rispetto ai suoi antagonisti, avere una sopportazione maggiore del disagio provocato dall’attesa. Il sistema nervoso, attraverso strutture che Laborit descriverà nel 1974 col termine di Sistema Inibitore dell’Azione (SIA), è perfettamente in grado di gestire questa condizione. Quando l’individuo verifica che non si può, per il momento, nutrirsi, lottare o fuggire, attiva istintivamente l’ipotalamo e l’ipofisi che, attraverso messaggi ormonali, inducono le ghiandole surrenali a ridurre la produzione di adrenalina per sostituirla con quella di glicocorticoidi. Questo nuovo assetto ormonale ridurrà progressivamente il consumo energetico, abbasserà lo stimolo di muoversi ed agire e permetterà lunghe attese.
L’aspetto più interessante del fenomeno però è riposto nelle conseguenze che questo comportamento di inibizione determina. A livello organico, il risparmio del consumo energetico richiede molti sacrifici. Tutti gli organi, apparati e sistemi, sono costretti ad abbassare l’intensità della propria azione; il rallentamento metabolico che ne consegue risulta, a lungo andare, dannoso. Per esempio il sistema immunitario, lavorando a regime più basso, espone l’individuo a rischi superiori di infezioni e patologie. Per questo motivo l’inibizione, nell’animale e nell’uomo, è sempre accompagnata dall’angoscia. Il provare angoscia quando non si ha via d’uscita e l’azione risulta impraticabile, serve, biologicamente, a mantenere ben presente nell’individuo la necessità di tornare ad agire non appena nuove condizioni lo consentano. Riepilogando, se non si può agire, si può aspettare; questa attesa avrà successo se la posso gestire per il tempo necessario; attuerò quindi un razionamento delle riserve energetiche, rallentando il metabolismo. Poiché questo rallentamento è di per sé dannoso, tanto che vi ricorrerò solo in casi di extrema ratio, vengo tenuto sempre in allerta attraverso un campanello d’allarme, che si attiva all’atto di inibirsi, rappresentato dall’angoscia. Laborit ha infatti osservato che al nuovo assetto ormonale dispiegato per il risparmio, quello già descritto da Seyle nel 1936 pur se allora non compreso nella sua interezza, si associa la caduta di produzione di endorfine a livello cerebrale.
Ecco perchè i soldati che subivano l’amputazione di un arto in buone condizioni di coscienza si infettavano più facilmente di coloro che vivevano la stessa esperienza in stato di torpore. La presa d’atto di essere diventati giovani invalidi, attivava il sistema inibitore: il conseguente abbassamento di attività del sistema immunitario agevolava lo shock post operatorio. Oggi il coma farmaceutico viene indotto in larga misura per bloccare proprio i fenomeni di inibizione; penso ad esempio a questa pratica rivolta ai grandi ustionati. Queste scoperte illuminano a giorno i meccanismi ed i fenomeni legati alle depressioni e l’insorgenza psicosomatica di alcune patologie “sociali”, come le definisce Laborit, in quanto favorite da una serie infinita di inibizioni che le socio culture gerarchiche impongono agli individui fin dalla loro nascita. Di qui la proiezione nel campo sociologico e filosofico dello scienziato. Una società, dove comandano per il proprio tornaconto pochi gerarchi, e che costringe i più a subire proibizioni ed ostacoli alla propria azione di consumo, fuga o lotta, genera inevitabilmente continui stati di inibizione, depressione, patologia. Pensiamo oggi a chi perde lavoro, casa, armonia familiare e non ha azioni di risposta da attuare per risolvere il problema, mentre il proprio gruppo sociale gli nega ogni aiuto. Laborit si fa quindi portatore di una nuova etica sociale che dovrebbe, in futuro, permettere la costruzione di società, biologicamente corrette, concepite quindi per indurre al minimo la necessità di inibirsi per tempi prolungati.
Ma c’è un ultimo aspetto fondamentale legato all’inibizione. Prima che giungano danni organici per una prolungata inibizione, quando è possibile un individuo ricorrerà a comportamenti aggressivi inconsapevoli. Questa violenza istintiva ed incontrollata, che un individuo fortemente depresso può scatenare contro gli altri o contro se stesso, non è funzionale a risolvere il problema di adattamento, ma è perfettamente efficace a bloccare l’assetto ormonale inibitorio che sta creando guasti organici e che viene percepito attraverso una angoscia crescente. Chi, in condizione di disagio, senza possibilità di agire, e quindi costretto ad inibirsi, si troverà davanti un suo simile, lo vedrà come un avversario cui dedicare la propria violenza. In un carcere duro, ad esempio, l’aggressività costante dei detenuti non permetterà di uscire o evadere, ma consentirà ai detenuti stessi - a livello biologico - di non ammalarsi. Questa violenza se non trova sfogo verso i propri simili si indirizzerà verso se stessi, generando comportamenti ossessivi, stereotipie, autolesionismo; aprendo alle malattie psicosomatiche e spingendosi, talvolta, fino al suicidio. Ecco perché in un regime carcerario l’isolamento risulterà ancor più angoscioso: mancheranno gli avversari contro cui sfogarsi per bloccare l’inibizione.
Mi perdonerà Laborit per la sintesi brutale che ho fatto di una soltanto delle sue affascinanti scoperte, senza nemmeno accennare agli studi sulla clorpromazina, la funzione profonda delle cellule della glia, il ruolo dei radicali liberi e la sintesi del GHB (gamma idrossibutirrato), ma lo spazio a disposizione non mi consente di andare oltre. Laborit è stato un divulgatore infaticabile, che oltre a scrivere e pubblicare i risultati delle sue ricerche su prestigiose riviste accademiche, ha sempre presentato ed esposto i molteplici aspetti delle scienze umane al grande pubblico, ricorrendo ad ogni canale mediatico ed animando innumerevoli salotti culturali; il suo è un approccio metodologico d’insieme, vale a dire capace di ricondurre molteplici scoperte di singole discipline scientifiche - quali soprattutto la neurofisiologia, la biologia e la farmacologia - ad un’unica visione sinottica dell’uomo nella sua interezza, come individuo e come animale sociale. Le sue conclusioni scientifiche vengono pertanto calate, verificate ed applicate, ad alcune delle più importanti questioni sociologiche, storiche e filosofiche. Il progresso scientifico forse correggerà e rimodulerà alcune sue intuizioni, ma certi principi da lui descritti sulle origini biologiche del comportamento, risultano oggi fondamentali verità, assodate ed incontrovertibili. ADL