lunedì 8 gennaio 2018 - Francesco Grano

"30 giorni di buio": un horror di sopravvivenza tra il rosso del sangue e il bianco candore della neve

Uscito nelle nostre sale cinematografiche dieci anni fa e accolto tiepidamente, (ri)scopriamo 30 giorni di buio, l’horror a base di vampiri diretto da David Slade, regista di Hard Candy.

Estrema Alaska: nella piccola cittadina di Barrow molti abitanti si preparano alla partenza per via dell’incombente notte polare, fenomeno che porta con sé la mancanza di luce diurna e, di conseguenza, una perenne notte protratta per un lungo periodo. L’arrivo di uno straniero farneticante e il susseguirsi di sabotaggi e uccisioni di cani, portano lo sceriffo locale, Eben Oleson (Josh Hartnett), prima ad arrestare l’ultimo arrivato e dopo, coadiuvato dall’ex moglie Stella (Melissa George) rimasta a Barrow per aver perduto l’aereo, a indagare sugli strani fatti accaduti. Arrivata la notte polare con essa fanno ingresso nel remoto villaggio un numeroso gruppo di strani individui. Essi non sono che mostruosi vampiri giunti a Barrow per sfamarsi e, con il favore delle tenebre e l’isolamento, agire senza ostacoli alcuni. Scampati al massacro lo sceriffo, Stella e un manipolo di sopravvissuti cercano di resistere barricandosi, in attesa dello scadere dei trenta giorni e, così, dell’arrivo della luce solare.

La figura del vampiro, creatura notturna e demoniaca, eterno non morto maledetto ma, al contempo, accattivante e con un certo carisma, è sempre andata per la maggiore all’interno della produzione cinematografica orrorifica e non fin dagli albori ad oggi. Basti pensare a capolavori come il Nosferatu di Friedrich Wilhelm Murnau o il Dracula di Tod Browning, per poi giungere a titoli come Il buio si avvicina e Ragazzi perduti, con i loro vampiri punk e grunge o ancora a perle della Settima arte come il Dracula di Bram Stoker di Francis Ford Coppola e Solo gli amanti sopravvivono di Jim Jarmusch per poi toccare, purtroppo, anche vette di smielato patetismo e ridicolezza con la saga di Twilight. Se da una parte il cinema ci ha abituato a vedere questo campionario di incarnazioni di tali creature che spaziano dal sentimentale al raffinato (Intervista col vampiro docet) per poi arrivare al mostruoso e fino al ridicolo, dall’altra parte, di certo, non è stata accantonata in toto l’origine brutale e spaventevole di tale icona letteral-cinematografica. Un esempio di quanto appena affermato è un film uscito nelle nostre sale dieci anni fa: 30 giorni di buio (30 Days of Night).

Tratto dall’omonima serie a fumetti di Steve Niles e Ben Templesmith, prodotto da Sam Raimi (“papà” di La casa), diretto nel 2007 dal britannico David Slade (regista di Hard Candy, piccolo cult facente parte del filone del revenge movie) e distribuito nel nostro Paese solo nei primi mesi del 2008, 30 giorni di buio è un horror che, nonostante alcune lacune nello script e un finale che vira – forzatamente – verso il fantasy, si lascia guardare senza troppi se e senza eccessivi ma, riportando lo spettatore indietro nel tempo, a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta, facendolo (ri)entrare nella filmografia di un noto artigiano dell’horror, quel John Carpenter che ha (ri)scritto le regole del genere. L’opus n. 2 di Slade gioca, appunto, su questo: prendendo spunto dal papà di Halloween – La notte delle streghe e La cosa, 30 giorni di buio edifica le sue fondamenta e, con esse, i suoi pilastri portanti su quell’assedio carpenteriano assurto, nel corso delle decadi, a vero e proprio modello di partenza per prodotti di tal tipo. L’arrivo della notte polare è solo la punta dell’iceberg di un evento che, successivamente, va oltre l’umano, lo scientifico e il raziocinante; il calare delle tenebre, minaccioso quanto nefasto è l’inizio di uno smembramento societario, di una riduzione in scala che vede un macrocosmo, dimenticato dalla civiltà e da Dio (esemplare la risposta del leader dei vampiri che, di fronte al Dio invocato da una vittima risponde, in maniera disarticolata e mostruosa “No Dio”, richiamando alla mente quel nichilista “Dio è morto” del filosofo Friedrich Nietzsche), divenire un microcosmo, con numerosi abitanti che, valigie alla mano, vanno via incapaci di resistere e sopportare la tenebris perpetua condannando, in(direttamente), a un destino nefasto i loro concittadini, quelle persone che non vogliono abbandonare quel posto sicuro chiamato “casa”. Inutile celare che fin dalle battute iniziali 30 giorni di buio trasmette un senso di opprimenza e inquietudine al pari di quella elettricità statica che, a volte, si percepisce nell’aria prima di un temporale.

Un senso di costante tensione palpabile fin dal titolo stesso, quel giorni di buio contrastante e al tempo stesso paradossale e che, senza troppi giri di parole, si riassume con il concetto dell’eterna lotta tra luce e buio, bene e male. Una tensione che cresce per poi esplodere, definitivamente, con l’entrata in scena degli antagonisti, dei vampiri assetati di sangue, ferini e (apparentemente) inarrestabili. Con l’arrivo delle controparti umane 30 giorni di buio scatena tutta la sua carica grandguignolesca, con i poveri abitanti aggrediti per strada, trascinati fuori dalle proprie abitazioni e dissanguati, dilaniati e fatti a pezzi da canini e bocche fameliche e mostruose tra disperazione, freddo estremo e le candide nevi dell’Alaska che, in pochi secondi, si tingono di rosso, perdendo ogni barlume possibile di purezza (sequenza, questa, resa ancor più di effetto dal dolly dall’alto e dal ricorso a un vuoto sonoro). Tra forti dosi di splatter e gore e momenti di azione e suspense, David Slade mette in scena un assedio (come già affermato in precedenza) johncarpenteriano fatto di barricate, candelotti di dinamite, fucilate in testa, decapitazioni, arti mutilati, mutazioni corporee e sangue a fiumi (La cosa dice niente?), in una strenua ed estenuante lotta per la sopravvivenza in attesa di quel barlume solare salvifico e salvatore.

Opera orrorifica non perfetta ma non per questo da scartare completamente, 30 giorni di buio non mira al paragone con i “fratelli maggiori” come – ad esempio – il Vampires dello stesso Carpenter, semmai cerca di ritagliarsi la sua nicchia nell’alveo dei prodotti sì mainstream e di entertainment, bensì punta ad essere qualcosa di originale che, nonostante i suoi punti deboli, riesce a creare un immaginario suggestivo e (in parte) non scontato, non misconoscendo l’omaggio a un grande del cinema d’assedio quale è il Maestro John Carpenter e affermandosi, così, come un horror di sopravvivenza tra il rosso del sangue e il bianco candore della neve.




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