mercoledì 16 marzo 2016 - Aldo Maturo

16 marzo 1978, sequestro Moro: il giorno della paura

Sono passati 38 anni da quel terribile giorno, ma non si possono dimenticare le prime ore del sequestro di Aldo Moro, vissute nel supercarcere di Fossombrone faccia a faccia con i capi delle Brigate Rosse

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Carcere di Fossombrone

Il 16 marzo del 1978, con il sequestro Moro, iniziarono i 55 giorni più misteriosi dell’intera storia dell’Italia repubblicana. Le Brigate Rosse sterminarono la sua scorta, colpendo al cuore dello Stato, termini che per noi erano familiari perché li leggevamo tutti i giorni nei comunicati che i brigatisti ci consegnavano. L’Italia si fermò. Nelle strade, nelle case, negli uffici, nelle fabbriche gli occhi erano incollati davanti alle tv che mandavano in diretta le immagini in bianco e nero degli uomini di scorta di Aldo Moro. Erano corpi straziati, bagnati di sangue, stesi sull’asfalto o scomposti nelle auto crivellate di colpi. La morte li aveva colti con le pistole in pugno, inadeguate di fronte allo sbarramento di fuoco che aveva devastato l’auto di Moro e le due di scorta.

Nel carcere di Fossombrone la notizia mi arrivò per telefono da un amico, si divulgò in un attimo come un fulmine tra gli agenti e tra gli stessi detenuti. Di certo alcuni di loro già sapevano, perché erano tra i capi delle Brigate Rosse. 

Un silenzio surreale calò tra quelle mura, di qua e di là delle sbarre, e tra noi scese la paura che stesse succedendo qualcosa d’irreparabile. Guardando le prime drammatiche immagini di Via Fani sentivamo che non eravamo solo spettatori. Quella strage era la più alta espressione di lotta allo Stato e noi eravamo in prima fila perché dello Stato rappresentavamo non solo “il carcerario” – massima espressione della repressione da abbattere anche con le armi – ma del “carcerario” eravamo l’élite perché eravamo uno dei cinque istituti dove erano finiti tutti i brigatisti arrestati fino a quel momento.

Pensare che a pochi metri da noi c’erano i compagni o i mandanti di quella strage – invero rimasti in silenzio davanti alle tv delle loro celle – turbava profondamente i nostri animi.

Bisognava mantenere la calma, essere pronti a tutto sapendo di essere soli con noi stessi. Capivamo che, qualunque cosa fosse successa, in quelle ore nessuno avrebbe pensato a noi. Non avremmo potuto contare sull’appoggio di altre forze di polizia, di certo impegnate altrove. E ci preparammo al peggio.

L’idea che stesse per scoppiare un colpo di Stato, o che all’improvviso potessimo essere attaccati dall’esterno da brigatisti armati, era un’ipotesi che non si poteva scartare. L’adrenalina era al massimo, ci si parlava con gli occhi. Non che per noi fosse un clima tanto diverso dal solito. Dal luglio 1977 i 174 detenuti tra i più pericolosi d’Italia si sentivano “in guerra” con noi tutti i giorni.

Ma la sensazione di sentirsi “soldati” quella mattina del 16 marzo era diversa. Qualcuno disse che di lì a poche ore avremmo visto i carri armati nelle piazze di Roma e delle maggiori città. Mi sentivo gli occhi dei miei agenti addosso. Di quelli più anziani, del Comandante Canali, dei Brig. Renda, Mottola, degli Appuntati Giuseppucci, Baldelli, e dei più giovani come Carbonari, Pagano, Vitale, Caggiano e di tanti altri. Cosa facciamo?

Calma, calma e allarme massimo. Richiamammo al telefono tutto il personale libero dal servizio, raddoppiammo le sentinelle e il personale di portineria, consegnammo a tutti altri caricatori per i mitra oltre ai due in dotazione. A tutti i posti nevralgici il giubbetto antiproiettile. Non era necessario parlare e specificare gli ordini.

Mi vennero in mente i western della mia gioventù, quando il Forte sperduto nella periferia si preparava all’attacco finale degli indiani.

Ore cariche di tensione e di paura per l’imprevedibile, ore che hanno segnato la vita di chi lì c’era. Nessun contatto con i nostri terroristi in cella ma era quasi come se li sentissimo dire: avete visto di cosa siamo capaci?

Rappresentavamo lo Stato, non potevamo accettare nessuna provocazione.

In quelle ore saltarono tutte le gerarchie. Eravamo tutti uniti, tutti colleghi, tutti pronti a fare fino all’ultimo il nostro dovere. Il personale fu splendido e ancora una volta il pericolo ci fece sentire parte indivisibile di un tutto.




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