venerdì 5 maggio 2017 - UAAR - A ragion veduta

Velo islamico, giustizia, sicurezza: tutto si complica. Il caso del Palazzo di Giustizia di Ancona

È accaduto alcuni giorni fa al Palazzo di Giustizia di Ancona. Due donne si sono presentate ai controlli di sicurezza del tribunale con il volto coperto da velo integrale (niqab) e come sempre più spesso accade, hanno opposto tutta la loro insofferenza e resistenza al previsto riconoscimento. Solo grazie a un compromesso con un’addetta alla sicurezza — rigorosamente donna — del tribunale, che ha preso in disparte le due in una stanza adiacente e ha eseguito il consueto controllo, la situazione sembrava essere tornata alla normalità.

Già, sembrava. Perché in udienza, di fronte al giudice Giovanni Spinosa, le complicazioni si sono di nuovo ripetute. Interamente nascosti non solo il volto ma anche le mani, proprio come vuole la tradizione islamica più integralista, il presidente del tribunale si è visto obbligato a chiedere alle donne di scoprire almeno la bocca per poter sentire la loro testimonianza. Una situazione seccante e al limite dell’interpretazione di quel “giustificato motivo” (religioso?) previsto dalla legge n. 152/1975 in materia di tutela dell’ordine pubblico. Specie se si considera che è della sicurezza di un Palazzo di Giustizia e della deposizione in un processo che si sta parlando. 

Neanche a dirlo poi, l’imputato in questo processo era il marito di una delle due donne, particolarmente dedito a picchiarla con schiaffi e pugni. Quando spesso “perdeva la pazienza” e anche con la complicità della nuora. Una triste storia di violenze e maltrattamenti in ambito familiare domestico per i quali l’uomo, originario del Bangladesh, è stato condannato. Una vicenda esemplare che nella sua complessità sottolinea ulteriormente la sottomissione della donna islamica al proprio marito. Evidentemente non solo attraverso l’imposizione del velo.

Paul Manoni

Foto: [email protected]

 



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