giovedì 17 giugno 2010 - Trilussa

Va pensiero, simbolo del separatismo della Lega

Da semplice e a volte divertente folclore il fenomeno Lega sta diventando un pericolo. Da non sottovalutare.

Va pensiero, simbolo del separatismo della Lega

Sembrava solo un fenomeno di costume, un gruppo di allegri spacconi che si divertivano a proclamare la loro presunta diversità etnica con battutacce e irriverenti proclami.

Poi sono diventati difensori accaniti degli interessi esclusivi dei propri elettori inventandosi un federalismo di facciata, a cui hanno aderito anche altri partiti, ma che probabilmente nasconde solo lo scopo, nemmeno troppo nascosto, di lasciare che i proventi delle ricche regioni del Nord possano rimanere confinate alle loro regioni senza essere sperperate da “Roma ladrona”.

C’è della verità nei loro proclami e il dispendio di risorse e la corruzione centrale è sotto gli occhi di tutti, ma non è certo affamando il Sud che si risolvono i problemi del Paese.

Certo che le regioni meridionali sono esempi eccellenti di enormi sprechi di risorse e bene faranno i governatori e i politici di queste regioni (e i cittadini, aggiungo io) a cambiare radicalmente strada perché se una certa solidarietà fra regioni sarà sicuramente inserita nel contenitore Federalismo, ancora vuoto, molto sarà lasciato alle iniziative virtuose delle singole regioni.

Un uso meno che accorto delle risorse e lo sperpero legato al malcostume e alla mafia comporterà gravi problemi per le regioni più povere del nostro Meridione mentre non sappiamo quanto aiuto potrà venire dal Governo centrale in caso di necessità considerando il sempre maggiore peso della Lega nell’alleanza di Governo.

Ma ora, forti anche dei loro successi elettorali, e dall’estensione delle loro idee fino al centro Italia, favoriti dalla semplicità dei loro proclami e dalla superficialità dei loro programmi, programmi che si basano su poche parole molto chiare e poche cose molto condivise e di facile presa sulla gente, sembra si siano esaltati a tal punto da osare perfino di cancellare i segni del nostro passato, della nostra Storia.

La sostituzione dell’Inno di Mameli con il “Va pensiero” verdiano è sicuramente un miglioramento dal punto di vista della gradevolezza musicale, ma il significato è preoccupante: è il rifiuto della italianità, dell’appartenenza ad un’unica nazione, il rifiuto dell’unità d’Italia, il segno di una presa di distanza da tutto il Risorgimento e dai suoi morti.

Se l’episodio del guascone Bossi che con la bandiera italiana voleva nettarsi il sedere (lui è stato molto più volgare) è da considerarsi bravata, buffonata, spacconata conoscendo l’individuo e il consesso (davanti magari alla sua folla, urlante e acclamante) l’episodio del placido governatore Gaia assume tutto un altro significato: ha l’autorità della veste ufficiale, dell’atto pubblico ragionato e voluto e non il sapore della battutaccia per eccitare gli animi come nel caso di Bossi.

Molto più grave e segno di un salto di livello.

Sinceramente fino a qualche tempo fa lo sfoggio delle camice verdi, del fazzolettino verde nel taschino, la cravattina pisello mi davano solo un senso di fastidio perché volevano evidenziare una diversità etnica e culturale che in effetti non esisteva, come la famosa origine celtica, i bagni nel Po, miss Padania, la nazionale di calcio padana, tutti fenomeni da catalogare come folcloristici e niente più. Al limite episodi e manifestazioni che facevano un po’ sorridere e che invece purtroppo vanno valutati con più attenzione perché stanno diventando un vero pericolo.

Un pericolo che anche il nostro Presidente della Repubblica dovrebbe cominciare a notare, magari con qualche presa di posizione più decisa, con qualche riferimento più preciso invece della semplice dichiarazione della indispensabile unità della Nazione, ribadita in occasioni ufficiali e derivante esclusivamente dal suo Ufficio di rappresentante dell’unità nazionale.

Ultimo esempio di questa deriva pericolosa è di lunedì, l’entusiasmo di Radio Padania per il gol del vantaggio paraguaiano contro la nostra nazionale di calcio.

Questo entusiasmo non può essere considerato alla stregua di un semplice fatto di costume ed ha, nella sua apparente innocenza, un significato ben più grande.

Pur con le riserve di quanto di brutto nel calcio c’è nel nostro paese, per le recenti questioni degli arbitri, delle partite addomesticate, delle scommesse, dei processi che non arrivano a niente, della violenza negli stadi, della potenza e prepotenza degli ultras, della mancata pulizia nell’ambiente calcistico in occasione degli scandali recenti eccetera, pur con queste mancanze e debolezze in quel momento la nazionale di calcio rappresenta tutto il paese, rappresenta la nazione, rappresenta l’Italia.

Porsi contro non è solo un fenomeno da sottovalutare come semplicemente folcloristico, oppure come un comportamento da sciocchi, ma è la dimostrazione di un sentimento molto spinto di separatismo, di affermazione di una diversa identità che cerca di affondare le proprie radici nella storia (ecco la funzione della varie messe in scena e dei vari travestimenti) ma che invece appare fondata solo sugli interessi economici della parte più ricca e più abbiente del paese.

Un separatismo spinto al punto di non riconoscersi più nel proprio paese, nella propria Storia e negli uomini che hanno lottato e hanno sacrificato la loro vita anche per la libertà di coloro che li disprezzano, che li vogliono cancellare, togliere dalle loro piazze e dai loro libri di storia.

Uomini, eroi che hanno sacrificato la loro vita perché anche in un lontano campo di calcio possa essere suonato un inno che identifica un solo popolo:

Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi,
Perché non siam popolo,
Perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica
Bandiera, una speme:
Di fonderci insieme
Già l’ora suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.




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