lunedì 31 ottobre 2016 - Antonio Moscato

Ungheria: sessanta anni fa esplodeva la crisi del sistema staliniano

Come ogni anno i media mainstream celebrano a modo loro la tragedia della rivoluzione ungherese, la più calunniata forse di tutte le rivoluzioni. Avevo reagito già qualche mese fa, con una panoramica sull’antefatto che riconduceva la vicenda ungherese all’interno di quel che era accaduto nell’intera area a partire dagli scioperi di Berlino est e dalla rivolta operaia di Poznan: Sessanta anni fa in Polonia si manifesta la crisi del sistema sovietico

(Foto: Fortepan/Adományozó/Donor : Pesti Srác)

Ora che si avvicina l’anniversario del secondo intervento sovietico, alcuni articoli ricordano la difesa incondizionata della repressione staliniana fatta allora da Napolitano, e magari quella più sofferta di Ingrao, ma raramente si ricostruisce il dissenso che si manifestò all’interno del PCI. “Il manifesto” ha riportato con un certo rilievo i ricordi di Luciana Castellina, che giustifica ancora oggi disinvoltamente il suo atteggiamento di disimpegno dalla battaglia che molti altri militanti comunisti (non solo intellettuali celebri come Natalino Sapegno, Carlo Muscetta, Alberto Caracciolo, Lucio Colletti e tanti altri) conducevano per ottenere che il PCI non si schierasse con la controrivoluzione.

Raramente si ricorda (senza ridurlo semplicisticamente alla necessità di una posizione comune della CGIL) l’atteggiamento di Giuseppe Di Vittorio, che in realtà era stato colpito profondamente dalle testimonianze di giornalisti de “l’Unità” presenti a Budapest come Alberto Jacoviello o come Vito Sansone, che in giugno aveva inviato corrispondenze appassionate e veritiere da Poznan.

Ho vissuto quei giorni “da dentro”, ma senza altro ruolo che di testimone, perché ero solo un giovanissimo universitario intimidito da tante celebrità, sui cui testi a volte avevo studiato, e non osavo quindi intervenire in assemblea; ma seguivo tutte le sere (e le notti…) i dibattiti appassionati del Circolo Universitario romano del PCI, che erano ospitati proprio nella mia sezione, quella del quartiere Italia. Il rifiuto categorico del partito togliattiano di tener conto del dibattito, che si era catalizzato intorno a una lettera firmata da 101 militanti ben conosciuti, aveva presto spinto verso la rottura (e verso destra, anche se non era fatale che accadesse) gran parte dei membri del circolo universitario. Ma di questo ho parlato più volte (tra i tanti articoli segnalo Una sezione del PCI nel 1956 ) e soprattutto ho riportato sul sito l’ampia e approfondita ricostruzione di quel periodo fatta da Livio Maitan in un capitolo delle sue memorie (LO SPARTIACQUE DEL '56).

Potrei fermarmi qui, o magari pubblicare altri link di articoli o stralci di libri sullo stesso argomento. Tanto più che con piacere ho ricevuto pochi giorni fa la segnalazione del “percorso di lettura” su Ungheria 1956, la rivoluzione diffamata, proposto da alcuni compagni (che curano una interessante pagina “Marxpedia”), che hanno utilizzato tra l’altro un mio testo oltre che un saggio di Pierre Broué. Per aprirlo cliccare qui . Li ringrazio intanto.

Ma vorrei aggiungere una piccola riflessione sulle ripercussioni di lungo periodo di quei colpevoli silenzi sui nuovi crimini staliniani, e sulla cappa di conformismo che si stese nel partito dopo quell’VIII congresso che invece la Castellina considera una “svolta decisiva” che giustificherebbe ancora oggi la sua rinuncia a riflettere sui sintomi che aveva conosciuto meglio di altri come dirigente di quella Federazione Mondiale della Gioventù che proprio a Budapest aveva la sua centrale.

Silenzio sul carattere proletario della rivolta ungherese, sulla sua organizzazione basata sui consigli operai, su tutte le altre manifestazioni della crisi, compresa l’impiccagione a freddo del leader comunista Imre Nagy e di altri compagni, priva di qualsiasi giustificazione e spostata di qualche settimana su esplicita richiesta di Togliatti per evitare che quell’assassinio potesse influenzare i risultati del PCI nelle elezioni politiche italiane del 7 giugno 1958.

Ancor più criminale l’indifferenza (o, peggio, le calunnie) nei confronti delle vittime della repressione che negli ultimi due decenni di sopravvivenza stentata del sistema ha distrutto più che i “nemici di classe” le opposizioni marxiste rivoluzionarie e comuniste che dagli anni ’60 erano rinate ed erano presenti in tutti i paesi “satelliti”. Jiri Pelikan ha spiegato bene il meccanismo, descrivendo la sua esperienza personale in un libro-intervista curato da Antonio Carioti, Io, esule indigesto. Il PCI e la lezione del ’68 di Praga (Reset-MarsilioMilano-Venezia 2010). A Pelikan esule in Italia, il PCI negò l’iscrizione, perché non accettava di rinunciare ad occuparsi del suo paese.

(Foto: Fortepan/Adományozó/Donor : Nagy Gyula)

Perfino il più potente e radicato dei movimenti di contestazione, Solidarnosc, che organizzava dieci milioni di militanti, fu abbandonato dai sindacati europei di sinistra alla repressione, mentre gli si offriva solo il sostegno interessato di non limpidi dirigenti sindacali degli Stati Uniti, finanziati da personaggi come Soros.Quando la necessità di cambiare - dopo tanti preavvisi arrivati tra il 1953 di Berlino Est e le ondate successive di proteste polacche, cecoslovacche, ecc. - arriverà a essere sentita perfino nella metropoli dell’impero, non solo sarà impossibile evitarne il crollo, ma non ci sarà praticamente alternativa alla resa senza condizioni all’imperialismo, con cui si erano fatti sempre più spesso affari, si erano consolidate complicità, e di cui si era cominciato a imitare sempre più consapevolmente l’ideologia.

La rapidità e ineluttabilità di quel crollo, lo spirito di capitolazione che i nostalgici del “socialismo reale” attribuiscono al solo Gorbaciov ma caratterizzò invece tutti i vertici dell’immenso apparato (che in molti Stati delle periferie sovietiche riuscirono in larga misura a riciclarsi come capitalisti, e un po’ ovunque tentarono di farlo), non poteva non ripercuotersi sui partiti comunisti del mondo capitalistico, che in gran parte sparirono del tutto, o si ridimensionarono, e soprattutto rinunciarono alla loro identità. In particolare, per spiegare il crollo del sistema che avevano esaltato fino al giorno prima, accettarono rapidamente le interpretazioni fornite dalla cospicua produzione propagandistica dei vincitori.

Fu la cecità di decenni di fronte ai tanti segnali della crisi politica e morale, oltre che economica, dell’URSS e del suo sistema, che facilitò l’offensiva ideologica della borghesia, che venne fatta propria bruscamente dal gruppo dirigente del PCI, che sperava così di essere accolto più facilmente nelle “stanze dei bottoni”. Il lungo adattamento alla collaborazione con l’avversario di classe ridusse la dimensione e soprattutto la lucidità degli stessi oppositori interni al partito, irritati più dal cambiamento di nome che dalla sostanza di una politica che con la tradizione comunista da un pezzo aveva poco a che fare.

A conferma indiretta di quanto poco “comunismo” ci fosse – alla vigilia del crollo – tra coloro che di quella parola si riempivano la bocca, c’è l’inquietante crescita di tendenze fascisteggianti e razziste in Russia non meno che in Ucraina, nelle regioni tedesche orientali, nei paesi del gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia, Ungheria), e anche nel radicarsi della Lega Nord in regioni italiane un tempo “rosse", come l’Emilia Romagna (compresa la bassa ferrarese). Ma in Italia gli eredi spesso inconsapevoli di quei dirigenti sordi e ciechi continuano a sfornare libercoli di propaganda stalinista, che spiegano tutto quel che è accaduto col “tradimento” di Chrusciov col “rapporto segreto”. Come se un mediocre e reticente tentativo di attribuire stalinianamente al solo Stalin l’involuzione profonda di un sistema in cui la burocrazia aveva trionfato già nel corso degli anni Venti potesse mutarne la natura in un sol giorno...(a.m.)




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