lunedì 20 marzo 2017 - Aldo Giannuli

Ue: il 2017 sarà l’anno della crisi finale della Unione Europea?

Le elezioni olandesi hanno prodotto una ondata di euforia nei ranghi della politica dominante e dei mass media al loro seguito: “l’ondata populista si ferma. La Ue si sta salvando”. Euforia, per certi versi eccessiva, anche se l’analisi coglie un dato vero: il rallentamento della pressione antieuropeista.

Ma anche su questo punto qualche riflessione in più il dato la merita: vero è che il partito di Wilders si aggira intorno al 19% ed è lontanissimo dal partito liberal conservatore di Rutte che ha il 33%. Però va detto che nessun sondaggio aveva previsto una affermazione dei “populisti” che raggiungesse il 25%, che il partito di Rutte perde l’8% dei consensi rispetto alle politiche precedenti (il che è difficile dire che sia una vittoria), ma soprattutto che quella olandese è una delle economie più solide d’Europa e che, nonostante le misure di austerità che hanno privato i cittadini di diversi servizi e garanzie sociali, la qualità della vita è pur sempre fra le migliori del continente. Insomma: non era certo l’Olanda il test più sfavorevole alla “Festung Europa”.

Come si sa, nel 2017 ci saranno altre due elezioni politiche decisive per la sopravvivenza della Ue: Francia e Germania. Il caso più compromettente è quello della Francia, paese capitale (come la Germania) dove la lista antieuropeista ha concrete probabilità di vincere. Quanto alla Germania, si tratta del paese più importante dell’unione, ma la lista anti Euro (Alternative fur Deutschland) dovrebbe fermarsi all’11 %, una percentuale di qualche consistenza, ma pur sempre largamente sottomaggioritaria.

Dunque, il test decisivo è quello parigino. Personalmente non ritengo probabile una vittoria della Le Pen che, tuttavia al ballottaggio ci arriverà e, realisticamente, prenderà più del 40%. Considerato che in Germania non dovrebbero esserci rischi di sorta: davvero si potrà dire che l’”ondata populista” si è fermata e la Ue è salva. E questo non convince affatto.

Che l’ondata cosiddetta “populista” possa essere giunta al punto massimo della sua espansione, oltre il quale non va è possibile o anche probabile, ma non sicuro: potrebbe trattarsi anche solo di un ondeggiamento momentaneo.

Ma, soprattutto, questo non significa affatto che la “Ue sia salva”. La maggior parte di osservatori ed analisti ragione in termini di “chi” possa demolire la costruzione europea e vede nei “populisti” l’unica minaccia concreta. Ma il problema non si pone affatto in termini di “Chi” quanto di “Cosa”: non “chi” demolirà la costruzione tecnocratica ed elitaria della Ue, ma di “Cosa” la farà implodere. Certo, se la Le Pen vincesse in Francia (non me lo auguro) sarebbe una decisa accelerazione della crisi europea e la fine potrebbe essere imminente. Ma non è affatto detto che se questo non dovesse accadere, la Ue non avrebbe più rischi di crollo. Chi pensa in termini di “chi” inverte l’ordine logico dei termini: non sono i “populisti” a far nascere i problemi di sopravvivenza della Ue, ma sono quei problemi non risolti ad aver determinato l’ondata “populista” e quei problemi rimangono perché dipendono direttamente dal difetto di progettazione dell’edificio europeo.

La Ue aveva promesso convergenza delle sue economie interne, una prossima unificazione politica, la stabilità dei prezzi, la difesa di salari e consumi… Nessuna di queste promesse ha trovato applicazione. E non a caso: la costruzione era tale da avvantaggiare il contraente più forte. Le regole finanziarie erano le stesse dell’ordinamento neo liberista, la caduta del welfare avrebbe portato con se il peggioramento delle condizioni di vita dei ceti popolari, la politica di delocalizzazione avrebbe mietuto posti di lavoro.

E la crisi ha svelato le dinamiche reali: l’esplosione del debito pubblico ha reso evidente la divaricazione delle economie nazionali sempre più divaricanti.

Oggi l’Euro è per i più deboli una camicia di forza che li soffoca. Alle classi dirigenti europee manca un pensiero strategico per uscire dall’impasse e la divaricazione degli interessi dei singoli paesi è tale da impedire anche la più elementare delle decisioni. E la conclusione del recente summit europeo senza nessun documento comune, neanche la più formale che si possa immaginare, è un’evidenza che parla da sola. L’unione è divisa su tutto: sulla crisi dell’immigrazione, sulle politiche economiche, sulla gestione del debito pubblico, sulle sanzioni alla Russia, sul rapporto con gli Usa di Trump, sulla politica energetica, eccetera eccetera.

Che la costruzione stia franando lo dice la stessa proposta di Europa a due velocità avanzata dalla Merkel che non si capisce bene a cosa si riferisca e che non si capisce come possa reggersi in una situazione in cui la moneta resta unica per tutti. Si capisce solo che occorre rivedere tutti i trattati istitutivi da cima a fondo, ma questo, con le regole attuali è praticamente impossibile. E, in effetti, basta il veto polacco per paralizzare tutto.

In una situazione del genere non è affatto necessario che i “populisti” vincano in qualche paese importante. E’ sufficiente qualsiasi cosa per determinare la frana finale: il default di Atene, una nuova Brexit in qualsiasi paese, fosse anche l’Ungheria, Malta o il Lussemburgo, un improvviso aggravamento della crisi del debito italiano, una improvvisa crisi diplomatica con la Russia che divida drasticamente i paesi dell’Unione, un’ondata fuori misura di immigrati e rifugiati.

L’amore per le cifre tonde e per gli anniversari, porta a pensare al 2017 , a sessanta anni dal patto di Roma, come l’anno finale dell’attuale costruzione europea, ma non è affatto necessario che questo avvenga nell’anno corrente. Ma ragionevolmente non si andrà molto più lontani.




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