venerdì 11 ottobre 2013 - Traiettorie Sociologiche

Tribolazioni dell’etica. "Sull’ingiustizia" di Amartya Sen

In un recente intervento a più voci (Sull’ingiustizia, Erickson, Trento, 2013, pp. 129, € 10,00) il premio Nobel per l’Economia Amartya Sen interviene su un fenomeno che è antico quanto la storia e la condizione umana, e che sicuramente rimane una delle cifre profonde della nostra epoca.

Esauritasi, almeno per ora, la spinta delle illusioni utopiche coltivate dalle ideologie del moderno – liberalismo, socialismo – e da quelle escatologiche sopravvissute al “disincanto del mondo” che la Storia si trascina dietro – cristianesimo, Islam, e quant’altro – la sopravvivenza delle istanze etiche pare affidata, oltre che alla quotidiana e rischiosa fatica degli oscuri e umili volontari che in silenzio operano nei posti peggiori del mondo, oops… a chi? Ah, sì, alla buona volontà di singoli intellettuali e di frequentatori dei social network, con i loro appelli e le loro “causes”.

Intanto, sul pianeta, la gente soffre e muore: di malattie facilmente curabili, di malnutrizione, di guerra, di religione, mentre ancora qualcuno usa termini come “paesi in via di sviluppo”, il che implica che prima o poi questo sviluppo, per queste regioni, arriverà. E non, come è più legittimamente prevedibile, li manterrà inchiodati alla dipendenza e alla soggezione alle parti ricche del pianeta, con buona pace della correttezza politica di coloro che sono impegnati nella inesausta ricerca semantica di una neutralità della parola che lascia tutto come sta ma consola l’anima e tiene a bada i sensi di colpa, come faceva notare col consueto sarcasmo David Foster Wallace (2006).

Così in Sull’ingiustizia l’economista indiano torna a riflettere sulle condizioni globali della disparità e della diseguaglianza, con coerenza e lucidità, proponendo il rilancio del tema. Alle spalle, implicita, una sua riflessione di qualche anno fa, espressa in Etica ed economia (2003 per l'ed. it.), pubblicato nel 1987, in cui propone una acuta distinzione, quella fra empatia e impegno, laddove con il secondo termine è da intendere la consapevole convinzione che il mondo debba essere più giusto, e quindi si operi di conseguenza, mentre col primo si indica il trasporto, la capacità di immedesimazione che dovrebbe far parte della condizione umana e che spinge a partecipare della vita degli altri, e quindi a cercare di migliorarne al condizione.

Vengono alla mente le parole di uno dei padri della sociologia novecentesca, il tedesco Georg Simmel che, in apertura delle sue pagine sull’amore (2011), prima di affrontare il tema dell’amore erotico, scrive dell’alternativa fra egoismo e altruismo: “Se io esaudisco i desideri di una persona perché li considero giusti e ragionevoli, il mio scopo ultimo è mettere in pratica tale giustizia, il mio solo movente decisivo è l’attuazione di tale scopo” (p. 9). L’altruismo, in Simmel, assomiglia molto all’impegno di cui scrive Amartya Sen, mentre l’amore, in una accezione più ampia di quella legata all’innamoramento e alla passione, fa pensare all’empatia di cui scriveva Sen.

Si dovrebbe applicare, insomma, tornando all’economista indiano, nella sfera della condizione umana più generale, una giustizia sostanziale, come emerge da un’antica distinzione etica e giuridica indù. In sanscrito, quella fra nīti e nyāya, che rimandano rispettivamente al riconoscimento delle leggi e alla correttezza della condotta in generale – ma in astratto – la prima, e al perseguimento di una giustizia che tenga conto di come il mondo è fatto realmente, e non di come viene immaginato dalle leggi – che, peraltro, sono contingenti (p. 16): con il linguaggio delle scienze sociali, determinate storicamente e socialmente.

E se dobbiamo ragionare su questo piano, rapidamente possiamo renderci conto di come queste due parole, “storicamente” e “socialmente” siano determinanti per le nostre riflessioni, e permettano di estendere la dimensione diacronica, storica, a quella sincronica, attuale, distribuita su tutto il pianeta. Anche rimanendo con i piedi ben piantati nell’Occidente sviluppato – e lanciando da qui lo sguardo in giro per il mondo.

Intanto, dando per scontato (se si vuole, solo per amor di discussione) che la sfera determinante nello svolgersi delle cose umane è quella economica, dobbiamo tener conto del fatto che la progressiva “finanziarizzazione” del capitalismo (Gallino, 2011), attraverso la progressiva delocalizzazione della produzione dai paesi industrializzati dell’Occidente verso le periferie del mondo ha prodotto, sì, sviluppo in quelle zone, ma a prezzi altissimi: sfruttamento selvaggio della mano d’opera, sia adulta che giovanile, trasformazione delle economie, ulteriori impulsi alle migrazioni, interne ed esterne, con tutti i costi sociali e individuali connessi.

E questa è già una profonda – basilare, nucleare – forma di ingiustizia.

Perché alla base, se ci riflettiamo, e sperando di non forzare la mano a Sen, c’è ineluttabile la stessa idea di umanità, di chi ne fa parte e chi ne è escluso di fatto. Non c’è empatia nei componenti delle élite di questi luoghi verso i loro simili più deprivati. Costoro, semplicemente, non esistono come umani, a guardar bene le cose. Prolungando una dimensione che vanta moltissimi esempi nella storia umana: uomini liberi e schiavi, per esempio. Ma anche uomini e donne – cui per molto tempo non è stata riconosciuta, a partire dagli araldi della misericordia divina, un’anima immortale. O adulti e bambini, fino all’inizio del Novecento anche nella civile Europa trascurati, maltrattati, sfruttati, non riconosciuti come persone…

E possiamo proseguire nel ragionamento: se le ingiustizie globali sono un riflesso del sistema economico dominante, è anche vero che poggiano sulla capacità concreta degli uomini di disinnescare, addormentare la dimensione empatica, che pare sia – pure – un tratto della condizione umana, capacità che diventa la base materiale per la violenza, la sopraffazione, lo sfruttamento, l’ingiustizia in tutte le sue forme.

Mettendo un attimo da parte nīti e nyāya – che pure si applicavano solo ad alcune, delle caste in cui era (ed è) divisa la società indù, come il concetto latino di pietas certo non si applicava agli schiavi – proviamo a contestualizzare e a ragionare su un mondo – quello in cui viviamo – completamente globalizzato, sempre più somigliante grazie alle comunicazioni ad una “casa di vetro”, come auspicava qualche studioso dopo la seconda guerra mondiale, in cui l’informazione finisce per filtrare anche dai luoghi più blindati.

Un mondo in cui i contrasti si fanno sempre più stridenti, proprio perché più evidenti, ed in cui per noi occidentali moderni e laici diventa sempre più difficile accettare certe situazioni e certi eventi che avvengono nei posti più oscuri e arretrati del pianeta – e sempre più spesso anche in casa nostra.

Ragionare di ingiustizia all’occidentale significa ragionare di un contesto in cui tutti sono veramente uguali fra loro, come ci illudiamo che sia da noi. Dimenticando che la radice dell’ingiustizia è – come crediamo sottintenda Amartya Sen – il sistema economico dominante, dappertutto sul pianeta. Lo stesso sistema che produce mescolanza, meticciato – e comunicazione. E che usa proprio le differenze, gli scarti, le distanze fra i vari livelli di “sviluppo” economico, sociale, culturale, per prosperare. Sfruttando, ad esempio, l’impossibilità di intervenire a livello internazionale su relazioni e rapporti sociali che per noi sono barbarici e disumani, ma che sono parte della cultura di certe aree del mondo, in cui è considerato normale, dopo tutto, fare commercio di uomini e donne, trafficando in esseri umani.

Un sistema globalizzato in cui avvengono fatti raccapriccianti come la vicenda della bambina di otto anni sposata con un adulto, che forse si è sentito obbligato dalle stesse consuetudini del suo paese a consumare subito il matrimonio, condannando la sua sposa alla morte praticamente immediata. Cinismo? Disumanità? Anche, ma probabilmente dietro queste nozze e tante altre c’è una storia – molto concreta e molto moderna – di doti in denaro, in mucche, in terreni…

Immensa ingiustizia, per noi abituati a difendere i diritti dei minori, terminale, in questo caso, ma forse ingiustizia solo agli occhi di noi occidentali, laddove nel paese in cui è successa sarà solo un episodio di una lunga serie, un incidente che può sempre capitare. Il vedovo può sempre risposarsi…

Perché ancora in molti luoghi le donne non valgono quanto gli uomini, e i bambini meno ancora. Figuriamoci le bambine.

In sostanza, l’idea di ingiustizia, di crudeltà, di ferocia, di barbarie, ancora varia da un posto all’altro del mondo, alla faccia della sua unificazione sotto la spinta dell’economia e delle tecnologie della comunicazione. Perché ormai si condivide praticamente tutto, tranne l’etica – che è quella a cui rimandano implicitamente pietas, nyāya, altruismo. E forse è questo il senso profondo, nucleare, del breve saggio di Amartya Sen.

 

Adolfo Fattori

 

Letture

Foster Wallace David, Considera l’aragosta, Einaudi, Torino, 2006.

Gallino Luciano, Finanzcapitalismo, Einaudi, Torino, 2011.

Sen Amartya, Etica ed economia, Laterza, Roma-Bari, 2003.

Simmel Georg, Frammento postumo sull’amore, Mimesis, Milano, 2011.

 




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