sabato 20 maggio 2017 - Oggiscienza

Sensibilità al glutine non celiaca: le cose da sapere

In occasione della Settimana nazionale della celiachia, parliamo nuovamente di glutine e dintorni. È la volta della sensibilità al glutine non celiaca, condizione rimasta a lungo in una zona grigia. Ma oggi?

di Eleonora Degano

Di sensibilità al glutine si parlava già negli anni Ottanta del secolo scorso, ma è proprio il caso di dire che è stata “riscoperta”. Negli ultimi anni i professionisti della salute di tutto il mondo si sono trovati di fronte a sempre più persone che riportavano reazioni avverse potenzialmente riconducibili al glutine, senza che fosse possibile una diagnosi di celiachia o di allergia al grano. Per anni il disturbo è rimasto in una zona grigia. Sebbene il Ministero della Salute sia ancora piuttosto cauto al riguardo, ricordando la necessità di criteri diagnostici precisi, sempre più studi cercano di fare chiarezza sulla patogenesi e sull’evoluzione di questa sensibilità. Oggi sappiamo che non si tratta di un’allergia, né di una reazione autoimmune.

Quante siano le persone a soffrirne è difficile a dirsi; la prevalenza non è quantificabile con precisione anche perché per molti si tratta di auto-diagnosi, nonostante gli esperti sconsiglino di togliere il glutine dalla dieta senza aver consultato un medico per un vero iter diagnostico. Nel caso dei pazienti celiaci, per esempio, sottoporsi ai test quando già non si mangia alimenti contenenti glutine rende impossibile identificare la presenza dell’intolleranza.

“Sono certamente stati fatti passi in avanti, soprattutto perché ora si tratta di una condizione molto più studiata”, spiega a OggiScienza Luca Elli del Centro per la Prevenzione e Diagnosi della Malattia Celiaca al Policlinico di Milano. “Fino a pochi anni fa ci si chiedeva soprattutto se la sensibilità al glutine non celiaca esistesse o meno, perché sempre più persone riportavano i sintomi a fronte dell’assenza di anticorpi, o di danni rilevabili nella mucosa del piccolo intestino”.

Il quadro clinico è estremamente vario, può sovrapposi alla sintomatologia della sindrome dell’intestino irritabile (IBS) ed è comune ai disturbi gastro-intestinali come la dispepsia funzionale, nei quali non si trova un’alterazione patologica rilevabile. Va da sintomi intestinali come diarrea, flatulenza, stitichezza e reflusso gastroesofageo, ma può anche presentarsi con disturbi della concentrazione, intorpidimento degli arti, dermatite o problemi neurologici che “tendenzialmente beneficiano della dieta priva di glutine”, dice Elli.

“Quello che ancora non sappiamo è come seguire chi presenta questa sensibilità, per esempio per quanto tempo prescrivere la dieta senza glutine o quanto si protragga la sensibilità stessa. Uno studio italiano su Gastroenterology, tuttavia, sembra suggerire che la condizione persista nel tempo. Per quanto riguarda l’aspetto diagnostico manca ancora ciò di cui avremmo più bisogno, ovvero un biomarcatore, qualcosa di rilevabile che, per esempio attraverso un esame del sangue, ci indichi chiaramente che è presente questo tipo di sensibilità”.

Nel frattempo sono usciti vari studi, il più recente è italo-americano e pubblicato sulla rivista Gut, che indicano che la direzione da seguire è quella dei biomarker per l’immunità innata. “Per esempio cercando la presenza di fattori legati all’infiammazione come le citochine”, prosegue Elli, “ma siamo ancora lontani da un vero e proprio esame e la diagnosi si svolge tramite il riscontro di un miglioramento clinico. Tra le opzioni a disposizione del medico ci sono i cosiddetti challenge, ovvero si toglie il glutine dalla dieta del paziente e poi lo si somministra senza che lui lo sappia, per vedere se i sintomi tornano o meno”.

Gli aspetti poco chiari sono ancora molti: non è chiaro se sia davvero il glutine a causare questa sensibilità o se i “colpevoli” vadano cercati altrove, per esempio in altre componenti presenti nel grano come gli inibitori dell’amilasi/tripsina (ATI). “Questa strada è tutt’ora sotto indagine”, prosegue Elli. Gli ATI sono proteine contenute nei cereali, che aumentano la resistenza delle piante all’attacco dei parassiti e si trovano in grandi quantità soprattutto nelle varietà coltivate.

Altri possibili candidati sono i FODMAP, acronimo per Fermentable Oligosaccharides, Disaccharides, Monosaccharides And Polyols, ovvero oligo-, di- e monosaccaridi fermentabili e polioli. Si tratta di una serie di alimenti che hanno effetti fisiologici comprovati nei pazienti che soffrono di sindrome dell’intestino irritabile.

FODMAP sono presenti in moltissimi alimenti di consumo quotidiano, non solo segale e grano ma anche latte e derivati, albicocche, pere, bietole, broccoli, asparagi, peperoni, funghi, legumi e molti altri.

Negli ultimi anni si sono affermate molte diete a basso contenuto di FODMAP, “vere e proprie dieto-terapie, opzioni terapeutiche che portano miglioramenti nei pazienti IBS”, conferma Elli. In questi regimi alimentari gli alimenti che contengono FODMAP sono esclusi dall’alimentazione per otto settimane sotto la stretta guida di un medico specializzato, per poi essere gradualmente reintrodotti fino alla tolleranza. Una dieta di questo tipo sembra essere in grado di migliorare il quadro clinico anche per chi soffre di sensibilità al glutine.

E il ruolo dell’effetto placebo? Spesso per chi segue una dieta gluten-free senza essere celiaco, sensibile o allergico al glutine si tratta di una scelta “più che altro legata alla moda, per i motivi più svariati ma soprattutto perché si pensa che la dieta senza glutine sia in qualche modo più salutare. Il che non è vero di per sé: l’aspetto importante in qualsiasi dieta è che sia bilanciata. L’effetto placebo o nocebo, effetti di auto-convincimento per i quali mi convinco che una certa cosa mi farà bene o male, sono molto noti e sicuramente nei disturbi funzionali giocano un ruolo importante. Fino al 30-40% dell’effetto riscontrato può esservi attribuito e bisogna tenerne conto”.

L’effetto placebo è il più noto: sono convinto di stare assumendo un farmaco, dunque ne trarrò beneficio anche se in realtà quel farmaco è una pillola zuccherina. Quando a entrare in gioco è il nocebo si verifica l’effetto contrario, un’anticipazione psicologica dell’intolleranza a causa della quale starò male anche senza motivo, perché sono convinto che debba essere così.

Secondo Eberhard Karls, professore di medicina psicosomatica all’Università di Tubinga, quando i media fanno da megafono a un certo argomento l’effetto nocebo si acuisce. Ed ecco che il glutine, a causa della sua immeritata “cattiva reputazione”, può diventare il motore di dolori, flatulenze e disagi di ogni tipo. Quello che abbiamo letto o sentito al riguardo sarà sufficiente a farci star male dopo averlo consumato.

Come spesso accade in tema di salute e alimentazione, è bastata la testimonianza di personaggi famosi come Oprah Winfrey e Gwineth Palthrow per portare milioni di americani a togliere il glutine dalla dieta senza che ce ne fosse un vero bisogno. In Italia ad aver ricevuto una diagnosi di celiachia sono sono meno di 200 000 persone, ma la prevalenza è dell’1%; il che significa che i celiaci sono almeno 600 000, anche se la maggior parte di loro non lo sa.

Ma il numero più impressionante è un altro: secondo gli ultimi dati diffusi in occasione della Settimana nazionale della celiachia (13-22 maggio), sono sei milioni gli italiani che si considerano affetti da celiachia e che scelgono una dieta senza glutine, mentre l’Associazione Italiana Celiachia ammonisce: “I celiaci hanno faticosamente conquistato diritti e tutele che però rischiano di essere messi in discussione dal diffondersi della moda del senza glutine tra i non celiaci, che banalizza la malattia”.

@Eleonoraseeing




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