martedì 11 aprile 2017 - Phastidio

Partecipate pubbliche, la farsa prosegue

Egregio Titolare,

da Presidenti del Consiglio che proclamano i mirabolanti effetti delle proprie riforme prima di averli ottenuti, così come da chi plaude a cotanti annunci, non si può pretendere molto. Non si può di certo esigere che comprendano la necessità di valutare, tra le diverse ipotesi normative a disposizione, la migliore in termini di costi e benefici; o l’importanza di verificare a posteriori se l’attuazione delle riforme abbia avuto i risultati declamati.

di Vitalba Azzollini

Eppure la regolazione è un costo, comporta sempre l’impiego di risorse dei contribuenti, quindi stime ex ante ed ex post degli impatti – che non sono frivolezze ma obblighi di legge per gli atti normativi del governo – dovrebbero essere “le basi” per chi discetta di spesa pubblica e temi similari: leggi inefficaci sono un aggravio ulteriore per il bilancio dello Stato.

Se tali concetti sfuggono a politici e tifosi, sono invece ben chiari al Consiglio di Stato che, sin dal primo dei provvedimenti attuativi della riforma c.d. Madia, ha evidenziato il pessimo utilizzo degli strumenti di “better regulation” – AIR e VIR prima di tutto – da parte del governo. In particolare, nel parere riguardante il testo in materia di partecipate, volto a sanare il vizio di incostituzionalità rilevato dalla Consulta, i giudici di Palazzo Spada hanno osservato che la scheda AIR della bozza del nuovo decreto – la quale “dovrebbe fondarsi (…) sul monitoraggio e sulla valutazione ex post (tramite lo specifico strumento della VIR) del t.u. n. 175 del 2016 – risulta del tutto carente”. In altri termini, il decreto integrativo e correttivo non è stato elaborato previo esame scrupoloso delle criticità emerse nei primi mesi di operatività del provvedimento originario: quindi, non rimedia ai suoi difetti, né sana le incertezze interpretative e applicative cui esso ha dato luogo. Anzi, paradossalmente in alcune parti lo peggiora.

Un esempio, tra molti: già con riguardo al primo decreto, da più parti era stata sottolineata l’eccessiva arbitrarietà del potere, attribuito al capo dell’Esecutivo, di disporre eccezioni allo sfoltimento delle società partecipate. Specificamente, il Consiglio di Stato – nel parere reso un anno fa circa su quel testo – esprimeva dubbi su quale fosse “la natura e il fondamento di tale potere” e chiedeva che “le precise condizioni” per il suo esercizio fossero definite nel stesso decreto: in mancanza, sarebbe stato violato il principio di legalità, data la sostanziale delega in bianco attribuita al primo ministro.

Cosa ha fatto il titolare del dicastero per la Pubblica Amministrazione a fronte di questa puntuale osservazione? Non solo l’ha ignorata, omettendo di sanare il precedente “vizio” ma ha addirittura raddoppiato il “vulnus”, conferendo il potere di salvare società partecipate dal famoso “taglio” pure ai presidenti delle Regioni, oltre che al presidente del Consiglio. Consentire a “un’autorità regionale di derogare, con suo provvedimento, a una disciplina statale generale propria dell’ordinamento” rappresenta “una ulteriore ed ancor più grave criticità” secondo il Consiglio di Stato.

Forse il ministro per la P.A. non ha chiaro il concetto di stato di diritto. Ma non è tutto. Il decreto originario prevedeva l’obbligo di analitica motivazione in caso di costituzione di una società a partecipazione pubblica o di acquisto di partecipazioni da parte di P.A. in società già costituite, con particolare riguardo alla “possibilità di destinazione alternativa delle risorse pubbliche impegnate”. Questa specificazione serviva, da un lato, a motivare l’acquisto della partecipazione in termini di utilizzo più efficace dei fondi pubblici impiegati; dall’altro, a giustificare adeguatamente la scelta del venditore, in assenza di obblighi di selezione competitiva; infine, a contenere la discrezionalità delle amministrazioni in materia di società partecipate. Ebbene, senza alcuna spiegazione, nel decreto correttivo tale richiesta di specificazione è sparita.

Se la motivazione di un atto serve, tra le altre cose, a renderne trasparente il processo di adozione, eliminare il riferimento al miglior uso dei fondi pubblici fa calare un velo di opacità su questo aspetto. Peraltro, la titolare del dicastero non si è forse resa conto che quell’eliminazione contrasta con la “ratio” del declamato FOIA nazionale, da essa stessa elaborato, ove si prevede espressamente che la trasparenza sia finalizzata “a favorire forme diffuse di controllo (…) sull’utilizzo delle risorse pubbliche”.

Come anticipato, oltre ai profili peggiorati, ve ne sono molti non migliorati, nonostante i difetti fossero noti. Il primo decreto legislativo disponeva che “al solo fine di ottimizzare e valorizzare l’utilizzo di beni immobili facenti parte del proprio patrimonio, le amministrazioni pubbliche possono (…) acquisire partecipazioni in società aventi per oggetto sociale esclusivo la valorizzazione del patrimonio delle amministrazioni stesse, tramite il conferimento di beni immobili”. Già relativamente a quel decreto il Consiglio di Stato aveva rilevato come l’ampiezza della norma potesse favorire la costituzione di società pubbliche che, “mediante l’espediente del conferimento di beni immobili”, avrebbero indirettamente continuato a svolgere attività di impresa, in contrasto con l’intento della riforma “di limitare e non di moltiplicare l’impiego degli strumenti societari”. Di questa osservazione non si tenne conto in occasione del decreto originario, e il testo correttivo persiste a non considerarla.

Parimenti, vengono ignorate altre criticità del decreto n. 175/2016, già rilevate dallo stesso Consiglio di Stato e da commentatori della riforma. Basti pensare al riparto di competenze tra giudice civile e giudice contabile, che Palazzo Spada aveva proposto “di distinguere con maggiore chiarezza per evitare possibili sovrapposizioni”; alla fallibilità delle società pubbliche, poiché l’obbligo delle amministrazioni locali partecipanti di accantonare nel bilancio un importo pari al risultato negativo non immediatamente ripianato delle società in house “negherebbe in radice la possibilità per le società in house di fallire”, potendo anche configurare un indebito aiuto di stato; al controllo e monitoraggio dell’attuazione del decreto, non essendo specificamente individuata un’apposita struttura dotata di poteri efficaci a tale scopo.

Serve aggiungere altro? Forse sì. Successivamente al parere del Consiglio di Stato, in forza dell’intesa tra Stato e Regioni, si è ad esempio previsto il dimezzamento, per il triennio 2017-2019, della soglia minima di fatturato (500mila euro) sotto la quale scatta l’obbligo della cessazione della partecipazione; la possibilità per le amministrazioni pubbliche di partecipare (non più solo di mantenere le partecipazioni già detenute) in società che producano servizi di interesse economico generale anche oltre l’ambito territoriale della collettività di riferimento; l’esclusione dei casinò dalla “sforbiciata” configurata dal decreto.

Un’ultima perla: nella scheda AIR allegata al nuovo provvedimento, alla voce “Descrizione degli indicatori che consentiranno di verificare il grado di raggiungimento degli obiettivi indicati” si declinano quattro punti. Qual è l’indicatore che manca, quello che serviva veramente? Il numero delle società effettivamente “tagliate”. Cosa significa questo? Significa che l’obiettivo della riforma – cioè il taglio delle partecipate – è entità reputata irrilevante nella valutazione ex post degli effetti. E questo è “tutto”.

Non si pretende molto dalla politica, ma a non pretendere più niente – plaudendo al “meno-peggio” di turno e lanciando strali a chi osa criticarlo – il Paese si sta scavando la fossa. Può pretendersi che venga compreso almeno questo?




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