sabato 4 giugno 2016 - Paride Ponterosso

Muore Muhammad Alì: addio al più grande pugile di sempre

 

Il mondo dello sport e non solo piange la morte di Muhammad Alì una leggenda del pugilato, il più grande di sempre anche fuori dal ring. Rivoluzionò la storia della boxe. Da sempre impegnato per difendere i diritti civili, si convertì all'islam e rifiutò di combattere in Vietnam: «Non farò 10.000 miglia per andare a uccidere e bruciare delle persone e dare seguito alla dominazione degli schiavisti bianchi». Aveva 74 anni

Muhammad Alì il più grande pugile di tutti i tempi una leggenda dello sport mondiale muore a 74 anni in un ospedale a Phoenix, dove era ricoverato da giorni, per una crisi respiratoria aggravata dal morbo di Parkinson, di cui era malato da tempo. Fu un grande uomo dentro e fuori da ring, un’icona dello sport mondiale. Negli anni in cui il mondo era ancora profondamente lacerato dall'odio razziale conquista a soli diciotto anni la medaglia d’oro nel 1960 alle Olimpiadi di Roma. È un ragazzo felice, fiero di rappresentare la bandiera americana, ma quando torna a casa invece di applausi sbatte contro il muro del razzismo e dell'intolleranza. Proprio nella sua città natale a Louisville un cameriere bianco si rifiuta di servirlo, per lui fu un trauma e si è reso conto di essere stato uno schiavo che ha combattuto per e non contro il padrone. Getta la medaglia d'oro nel fiume Ohio e inizia la sua ribellione contro il razzismo che lo porterà in un crescendo di rabbia e voglia di riscatto. 

Nato con un nome da “bianco” Cassius Clay, si convertì all’islam e per tutti fu Muhammad Alì. Dopo le Olimpiadi arriva nel 1964 il primo titolo contro Sonny ListonQualche anno più tardi si rifiuta di andare a combattere in Vietnam«Non ho alcun risentimento verso i Vietcong. Nessuno di loro mi ha mai chiamato negro» così il campione dei pesi massimi annunciò che non avrebbe fatto parte dell'esercito degli Stati Uniti. Una presa di posizione che gli costò cara: gli tolsero il titolo iridato, passaporto e licenza pugilistica e fu condannato a cinque anni di prigione. Solo qualche tempo dopo negli Stati Uniti si accorsero che la guerra del Vietnam era un tragico errore, troppo tardi… lui invece lo aveva urlato in faccia al mondo intero in tempi non sospetti.

Nel 1974 a Kingshasa, capitale dell’ex Congo belga, Alì disputò il match del secolo "The Rumble in The Jungle” contro George Foreman più giovane di sette anni e campione in carica. Un incontro che entrò nella storia della boxe. Venne definito un match tra "un bianco vestito da nero" e Alì il pugile più amato da tutta l'Africa. Benchè entrambi i pugili fossero neri afroamericani, statunitensi discendenti da schiavi, non era solo un incontro di pugilato, ma lo scontro tra un nero “nero”, come Muhammad Alì - che aveva sempre affermato la sua distanza e indipendenza dai bianchi- e un nero “bianco”, come veniva apostrofato Foreman per aver accettato di essere integrato nel sistema e per gli studi teologici da pastore protestante. 

 

 

Alì sfruttò in modo magistrale questa differenza, stimolando l’orgoglio africano degli zairesi: al momento del match aveva al suo angolo un’intera nazione. Alì viveva in mezzo alla gente, catturava il popolo perché era uno di loro. Parlava Alì, parlava senza sosta, affascinava e incantava. All’ottavo round ecco il suo capolavoro: esce dall’angolo e fa partire una serie di colpi, sette colpi consecutivi che sono entrati nella storia del pugilato. Il gigante Foreman crolla al tappeto e non si rialza più, ed è così che Alì divenne nuovamente campione del mondo. A fine incontro sono state tante le polemiche per le presunte scorrettezze da parte di Muhammad Alì, ma la verità è una sola, egli ha saputo trasformare un semplice match di pugilato in qualcosa di storicamente più complesso, rievocando la lotta etnica e politica tra il bene e il male e l’apartheid.

Dimostrando tutta la sua grandezza di atleta e di uomo, capace di sconfiggere nella testa ancor prima che nel fisico un avversario che in qualsiasi altra parte del mondo e in condizioni normali probabilmente sarebbe stato insuperabile.

Malato da tempo di Parkinson, Alì non si è mai arreso alla sua malattia: continuava a «volare come una farfalla e a pungere come un’ape». Nel 1996 in occasione delle Olimpiadi del centenario ad Atlanta Muhammad Ali commuove tutti: chiamato come ultimo tedoforo per l'accensione del braciere olimpico l’ex campione del mondo sorregge la torcia olimpica e la mostra al mondo; la sua mano tremolante per il morbo di Parkinson riesce a fatica ad accendere il braciere. Alì mostra tutta la sua debolezza, il più grande pugile di tutti i tempi piegato dalla malattia, ma che non ha perso la sua fierezza, quello stare sempre a testa alta. Proprio in quella occasione il Cio (Comitato Olimpico Internazionale) gli riconsegna la medaglia d’oro vinta nel 1960 che aveva gettato via contro l’ingiustizia.

Addio a un grande uomo di sport, un campione indiscusso sul ring che prese a pugni il ventesimo secolo.




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