martedì 8 settembre 2015 - Giovanni Graziano Manca

Moby: elettronica, eclettismo musicale, multimedialità

Viene da parecchi considerato un genio, ma francamente non so se la parola genio sia quella più adatta a definire Richard Melville Hall, in arte Moby, nato a New York nel 1965. ‘Originalissimo’, ‘poeta dell’elettronica’, ‘principe della ambient music’, ‘cantore in musica’, a seconda del brano che si ascolta, ‘dello spazio celeste o di assolati luoghi terreni’, appaiono forse definizioni che meglio riescono a contornare la sensibilità e l’indole artistica dell’uomo. Laureato in cinema e fotografia, polistrumentista (suona le tastiere, la chitarra e il basso elettrico), un passato da punk rocker e da disc jockey, fotografo descrittore di ‘non luoghi’, per quanto se ne sa timido e schivo nella vita privata, Moby con il suo aspetto vagamente nerdy è senza ombra di dubbio uno dei più innovativi autori di musica che gli Stati Uniti abbiano espresso negli ultimi vent’anni.

Una ventina di lavori discografici alle spalle (gli ultimi album di Moby registrati in studio ci mostrano il musicista in fase calante dal punto di vista creativo e si intitolano Wait for me (uscito nel 2009), Destroyed (del 2011) ed Innocents, del 2013) alcuni, a mio avviso, tra i migliori in assoluto che la musica pop abbia prodotto negli ultimi due decenni, l’americano, musicalmente parlando, si esprime attraverso una miscela di suoni che spaziano dal pop al rock al blues, dalla musica disco all’ambient, il tutto filtrato dall’elettronica, dal suono sintetico, dal campionamento dei suoni. Riascoltiamo i tre Cd Play (1999), 18 (2002) e Hotel (2005), tra i più rappresentativi dell’intera discografia del newyorkese.

Sono innanzitutto lavori che mettono in assoluto primo piano l’eclettismo strabiliante del loro autore.

Se in Play troviamo ritmi tribali, blues, gospel, frammenti di rap, briciole di soul music, tracce di rock, raffinatissima disco music, il tutto sotto il denominatore comune dell’elettronica che tutto sublima e trasferisce in una dimensione non terrena ma piacevolmente eterea, onirica e nello stesso tempo non, come ci si potrebbe aspettare, gelida, ma invece calda, palpitante, reale, 18 è, dei tre, il disco meno immediato, forse però quello più omogeneo sotto il profilo stilistico, il trionfo della ambient music, ancora dell’elettronica e del gospel: le sonorità prodotte dalle tastiere e la melodia leggermente malinconica di alcuni dei brani inducono facilmente l’ascoltatore alla riflessione più profonda. Tra le voci femminili presenti in 18 compare quella di Sinead O’Connor. Parlando di 18 in un’intervista Moby sostiene che il disco trasuda della sua grande ‘passione per la musica in generale e, in seconda battuta, per le belle voci. Mi ha sempre affascinato l'aspetto emozionale di una bella voce, forse quelle che preferisco sono quelle degli anni Ottanta, ma non ce ne sono molte in giro. Ho cercato delle voci che fossero convenzionali a livello umano. E poi ho cercato di curare le atmosfere: ho rincorso la qualità della situazione, dell'atmosfera, senza cercare dei viaggi trip come quelli dei Pink Floyd, ma dei brani dove devi sentirti perso e al tempo stesso dominare il tuo mondo’. Sono affermazioni che forniscono ulteriori elementi di riflessione su una musica che non sempre si presenta di immediata comprensione.

Hotel è il disco maggiormente caratterizzato dalle influenze rock del newyorchese. I brani di maggior impatto occupano la prima parte del disco ma a un più massiccio utilizzo delle sonorità tipiche della chitarra elettrica si affiancano nel prosieguo del CD atmosfere più lente e rarefatte.

Vale la pena di spendere due parole su alcuni dei progetti e attività parallele che il musicista americano ha svolto sempre nel campo della musica. Mi riferisco alle uscite discografiche pubblicate sotto altro pseudonimo (quello di Voodoo Child), per esempio (l’ultima, del 2004, si intitola Baby Monkey, un disco di pura electrodance con l’inserimento di qualche brano meno marcato), e ai videoclip che accompagnano anche diverse delle canzoni più recenti e che in qualche caso raccontano piccole storie animate. Ricordiamo il video di Pale Horses e il video ufficiale di One Time We Lived, singolo estratto da For Me Deluxe Edition, videoclip coloratissimo che coniuga immagini reali e immagini animate.

Il video animato di Shot in the back of my head, diretto nientemeno che da David Lynch, la dice lunga sulla espressività della musica di Moby e sul suo incedere ‘per immagini’ e merita qualche considerazione collaterale.

Non da oggi i grandi registi scoprono le potenzialità espressive del pop. I musicisti del genere popular, d’altro canto, fin dagli anni Cinquanta del secolo passato sperimentano sotto i più diversi aspetti le possibilità artistiche e mediatiche dell’arte cinematografica. Ciò accade sempre più spesso e con una frequenza tale che potremmo forse legittimamente pensare che ci troviamo di fronte ad un genere artistico dotato di peculiarità proprie: ne solo cinema, ne solo musica. La musica qui non ha solo una funzione accompagnatoria, quella tipica della colonna sonora; viceversa e similmente le immagini non sono unicamente e in modo strumentale correlate alla musica. Musica e immagini messe insieme, però, danno luogo a qualcosa che è molto, molto di più, rispetto alla loro somma. Volete la prova? Per rimanere al nostro buon vecchio Moby immaginate la musica dei video suonare senza quelle immagini oppure il video che scorre senza gli straordinari additivi forniti dalla sua musica …

 

 




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