venerdì 27 aprile 2012 - Enrico Emilitri

Ma le tasse sono davvero da abolire?

Una delle cose più odiate (se non la più odiata) del mondo sono senz'altro le imposte (o tasse). Si tratta, come ben sappiamo, di una somma che i cittadini debbono pagare allo Stato o alla Pubblica Amministrazione perché queste possano fornire loro i servizi essenziali (assistenza sanitaria e previdenziale, trasporti pubblici, scuola, istruzione e formazione umana e professionale, sicurezza, giustizia e ordine pubblico).

 

Secondo i principi, in particolare della democrazia liberale, lo Stato e la Pubblica Amministrazione non possono né debbono essere amministratori e gestori di alcuna attività economica e finanziaria poiché - secondo i principi del capitalismo - ciò porterebbe a non cumulare le entrate per capitalizzarle, ma piuttosto a versarle nelle casse statali o amministrative onde sostenere la spesa pubblica, lasciando le aziende in perenne crisi di liquidità, senza contare che simili attività verrebbero accusate di concorrenza sleale, visto che - contrariamente a quanto avviene nel settore privato - scopo dell'iniziativa pubblica non è, appunto, l'arricchimento individuale o colletivo, ma il soddisfacimento delle esigenze pubbliche e la limitazione del carico fiscale soprattutto sulle categorie disagiate o comunque meno abbienti. Il tutto viene, in sintesi, riassunto nella formula (cara tanto a Bettino Craxi quanto al suo amico, emulo e successore Silvio Berlusconi) "Meno Stato e più mercato".

A questo punto è evidente che tutti o quasi sarebbero ben contenti se gli stessi concetti di "imposte" o "tasse" venissero definitivamente aboliti insieme agli oggetti cui si riferiscono. Premesso che non sono un economista (ma un laureato in Storia), e pur con tutto il rispetto e la condivisione (quantomeno parziale) di queste attese, non sono del tutto d'accordo con simili presupposti, e spiego subito i perché.

Cominciamo dal fatto che secondo l'ottica capitalista meno si pagano imposte e tasse e più soldi rimangono in tasca ai cittadini, consentendo loro di poterli capitalizzare e spendere (o investire, il che poi è in sostanza lo stesso) per le proprie necessità e anche un minimo di superfluo, all'insegna del "tutti ricchi", come dire che basta assicurare la ricchezza a tutti e i problemi si risolvono automaticamente, il che non è esattamente vero, datosi che in effetti non tutti possono essere o divenire ricchi allo stesso identico modo; né è detto che nel momento in cui tutti si arricchiscono i problemi si risolvono automaticamente. E' anzi facile che aumentino anche perché non tutti hanno lo spirito imprenditoriale e professionale, né sanno amministrarsi o gestirsi in modo adeguato, e non si parla tanto dei ceti meno abbienti, quanto di coloro che ricchi lo sono già, ma proprio per questo finiscono per dilapidare patrimoni che le generazioni precedenti hanno accumulati con fatica ed enormi sacrifici (la casistica in tal senso è assai più frequente di quanto non sembri in apparenza).

Supponiamo per un attimo che si arrivi ad abolire imposte e tasse. Come si accennava sopra, tutti sarebbero certo soddisfatti dell'abrogazione di imposte e tasse, ma subito sorgerebbero dei problemi per il sostegno della spesa pubblica, dato che i cittadini si troverebbero nella necessità e condizione di dover provvedere di tasca propria alle spese per i servizi essenziali, vale a dire alla spesa pubblica. A questo punto si affacciano le seguenti ipotesi:

1. Aumentare il livello minimo deglli stipendi dei lavoratori dipendenti dagli attuali 1.000-1.500 € ca. sino ai 3-5.000 € (comunque non oltre i 10.000 €) mensili onde consentire loro di mantenere se stessi e le proprie famiglie, far fronte alle spese principali (affitto, forniture idriche, gas ed elettricità, trasporti pubblici e privati, spese medico-sanitarie e previdenziali, istruzione, cultura e formazione umana e professionale e - dulcis in fundo, anche perché restano sempre e comunque le più importanti - alimentazione, abbigliamento, calzature e accessori), avanzando al contempo almeno un terzo o un quinto dell'entrata (quindi perlomeno 12-15.000 € annue) fermo tenendo un contratto di lavoro perlomeno biennale o quinquennale. Con esso - in caso di disoccupazione non volontaria - si graverebbe assai meno sugli ammortizzatori sociali (principalmente disoccupazione e cassa integrazione), i cui fondi potrebbero in tal modo essere resi disponibili per scopi certo più importanti. La maggiore obiezione sarebbe che in tal modo ad imprenditori e liberi professionisti rimarrebbero meno risorse da investire nello sviluppo economico, scientifico e tecnologico e nella produzione e promozione di beni e servizi essenziali, percià una simile ipotesi verrebbe automaticamente respinta.

2. Destinare tutto ciò che non viene utilizzato per investimenti, spese correnti, stipendi e salari - fermo restando l'eventuale recupero di almeno parte dell'investito (supponiamo che vengano investiti 1.000.000 € con un ritorno di 1.200.000 €: risulta chiaro che - ammesso e non concesso che, badando solo all'essenziale e un minimo di superfluo - 100.000 € siano sufficienti per mantenere se stessi e la propria famiglia - il resto viene comunque reinvestito nell'attività) e un eventuale fondo per le emergenze - dovrebbe essere destinato perlomeno in parte al sostegno della spesa pubblica, o quantomeno alla copertura dei servizi essenziali, ma anche in questo caso verrebbe obiettato quanto sopra, cioè che rimarrebbe più nulla che poco da investire. In verità perché ciò impedirebbe ad imprenditori e liberi professionisti (che formano la spina dorsale non solo della nostra economia, ma anche di quella politico-istituzionale centrale e periferico-territoriale) di mantenere la propria egemonia a pressoché tutti i livelli ed il proprio stile di vita superiore a quella della media della popolazione, motivo per cui anche questa ipotesi è da considerarsi decisamente scartata.

3. Indurre lo Stato ad emettere una doppia emissione di valuta metallica e cartacea, parte destinata ai privati cittadini, parte al sostegno della spesa pubblica, per la cui produzione lo Stato stesso ha però bisogno di materie prime e tecnologie indispensabili, oltre che del personale necessario, e per far ciò ha bisogno di liquidità, che gli può arrivare solo da entrate supplettive e finanziamenti esterni, che possono - come si sa - provenire solo dagli stessi privati con, in questo caso, contribuzioni volontarie, che - anche quando abbondanti - non raggiungerebbero comunque il livello desiderato, o comunque sufficiente. Si tenga poi presente che anche i dipendenti pubblici, i funzionari di Stato e gli stessi membri dei vertici istituzionali ed amministrativi a livello centrale e periferico-territoriali sono comunque soggetti privati e che talune attività e servizi vengono comunque svolti ed assegnati in appalto ad individui ed imprese private, stante per cui pure il denaro assegnato alla spesa pubblica finisce, in fondo, in tasca ai privati, lasciando in tal modo le Casse dello Stato e della Pubblica Amministrazione in condizioni eternamente deficitarie (anche questa terza ipotesi verrebbe dunque scartata).

4. Consentire allo Stato e alla Pubblica Amministrazione (centrale e periferico-territoriale) di avviare una serie di attività a supporto per la produzione di beni e servizi (praticamente industrie di Stato), coi cui proventi sostenere la spesa pubblica, a costi e prezzi decisamente inferiori a quelli delle imprese private. Il loro scopo così non sarebbe tanto l'accumulazione del capitale o una qualsiasi attività speculativa, innescando quella che nella tradizionale visione capitalistica dei mercati viene definita "concorrenza sleale", dato che ridurrebbe i margini di guadagno dell'imprenditoria privata obbligandola a contrarre, a propria volta, i prezzi con contrazione dei relativi utili, per cui anche quest'ipotesi viene considerata decisamente da scartare.

Come si può ben vedere, qualunque ipotesi alternativa è considerabile e considerata, dunque, da scartare, stante per cui risulta evidente che il pagamento di imposte non è solo necessario, ma adidrittura indispensabile. 

Certo, si obietterà che esse gravano fortemente (a volte eccessivamente) sulle tasche dei cittadini (in primis i meno abbienti) e che l'imposizione della tassa patrimoniale avrebbe gravi conseguenze per l'economia, ma dobbiamo sottolineare come quest'ultima è, a conti fatti, una tassa "una tantum" (pagabile, cioè, fondamentalmente in una sola ed unica rata annua) e graverebbe solo su beni permanenti, o comunque di lungo possesso, il cui valore intrinseco (non soltanto economico) varia nel tempo e a seconda dell'uso, arrivando spesso e volentieri più a diminuire che ad aumentare, tanto che alla fine essa risulterebbe assai meno gravosa del previsto.

Ma come ben si sa, i nostri imprenditori ragionano secondo il metro di Paperon de' Paperoni, stante per cui le parole "imposte" e "tasse" non soltanto sono tabù, ma il pronunciarle sarebbe blasfemia, se non addirittura un'aperta dichiarazione di alto tradimento nei confronti di quelle classi che reggono il Paese, la società e l'economia, essendo esse le uniche ad assicurare il reale progresso in tutti i campi, dato che oltre la metà delle entrate vengono destinate agli investimenti e alla produzione di beni e servizi essenziali, mentre tutti gli altri ceti (compresa la classe lavoratrice) sono da considerarsi come parassiti poiché non effettuano analoghi investimenti contribuendo così ad analoghi progressi.

Riassumendo: nessuno vuole imposte e tasse, ma nonostante tutto esse risultano indispensabili per la sopravvivenza stessa del Paese e della popolazione, anche perché altrimenti bisognerebbe ricorrere ad almeno una delle soluzioni sopra riportate, che però nessuno vuole prendere neppure in considerazione perché risulterebbero (o verrebbero comunque considerate) decisamente ancor più deleterie.




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