sabato 7 gennaio 2012 - ///

Le trame del Qatar dietro l’idea dell’ufficio dei taliban

Sullo scacchiere internazionale il Qatar è lo Stato più cool del momento. Dopo aver giocato un ruolo fondamentale nella caduta di Gheddafi e nella promozione delle sanzioni contro la Siria da parte della Lega Araba, la nuova missione della diplomazia di Doha è quella di facilitare i colloqui per la pace nel conflitto afghano. A tal fine, l'emirato consentirà l'apertura di un ufficio dei taliban proprio a Doha, per fornire una piattaforma di dialogo con la comunità internazionale. Già nel 2001, prima che i taliban fossero sconfitti in Afghanistan, il Qatar aveva ospitato alcune loro delegazioni.

Ma l'iniziativa, che porta la firma dell'iperattivo del primo ministro (e ministro degli Esteri) Hamid bin Jassim Al-Thani, porta con sé una serie di domande.

Innanzitutto, chi sono i “taliban” in questione? In America se lo chiedono da almeno un paio d'anni, da quando l'amministrazione Obama accettò l'idea di favorire la reintegrazione politica di quelle fazioni che avessero offerto la garanzia della rottura di ogni rapporto con al-Qa'ida.

Riformulando la domanda, la questione è: il mullah Omar parteciperà ai colloqui? Forse. Pare nei giorni scorsi una delegazione di cinque membri guidata da Tayyib Agha, assistente di Omar, si sia recata a proprio a Doha per negoziare uno scambio di prigionieri con gli USA. Gli emissari hanno chiesto la liberazione di cinque uomini (la richiesta iniziale era venti) detenuti di Guantanamo, tra cui spicca il comandante Mohammed Fazil, indicato come possibile negoziatore nella successiva fase ufficiale delle trattative, quando l'ufficio di Doha sarà reso operativo. Tuttavia, dalle ultime notizie sembra che i taliban intendano sospendere gli attacchi alle forze di sicurezza pakistane per lanciare una nuova offensiva contro quelle Usa e Nato in Afghanistan – come dimostrano i recenti attacchi. Non esattamente il miglior biglietto da visita per intavolare una trattativa.

Allora, chi sono questi taliban? Probabilmente, si tratta dei gruppi mediaticamente inclusi nella rubrica di taliban “moderati' che vivono a Kabul, quelli della cricca del presidente Hamid Karzai. Gira voce che anche il figliastro di Gulbuddin Hekmatyar sia in soggiorno a Kabul per incontrare i funzionari Nato per conto del padre, forse con la prospettiva di rivedersi più in là, a Doha. Poca cosa, tuttavia, rispetto alla vastità della galassia dei taliban, considerato che i comandanti dei vari gruppi in Pakistan sono sempre più ai ferri corti.

L'incontro preliminare di Doha è fallito a causa dell'opposizione del presidente Kazai. Peraltro, il presidente afghano ha sempre cercato di sabotare qualunque iniziativa volta a favorire un negoziato diretto tra americani e taliban. Non vuole ritrovarsi ai margini di una trattativa in cui la posta in palio è la sua stessa vita. Reintegrare i gruppi talebani più influenti, una volta chiuso l'ombrello protettivo degli americani (nel 2014?), è per lui l'unica alternativa all'esilio.

La seconda domanda è il ruolo nelle future trattative degli altri due grandi attori dello scenario afghano, Iran e Pakistan, descritti come avversari nello scenario afghano. Mentre l'apertura della sede dei taliban a Doha ha avuto impatto sia in Occidente che nei media arabi, sia a Teheran che ad Islamabad il fatto resta pressoché ignorato. Al riguardo in Pakistan c'è un silenzio assordante, che va però interpretato. Ufficialmente il Pakistan non dovrebbe partecipare al tavolo negoziale; tuttavia alla luce della visita che il capo dell'ISI, Shuja Pasha, ha fatto a Doha la settimana scorsa, possiamo ipotizzare che qualcosa si stia muovendo sotto la superficie.

Neanche l'Iran dovrebbe sedersi al tavolo di Doha, almeno fintantoché sarà sotto osservazione per la questione dello Stretto Hormuz. Ma questa posizione potrebbe cambiare molto presto. Negli ultimi anni la diplomazia di Doha si è impegnata molto per riavvicinare Teheran alla comunità internazionale come ribadito anche di recente. Sia il Qatar che l'America sanno bene che nulla di ciò che avviene nell'Hindu Kush sfugge all'attenzione degli ayatollah. Anche il Pakistan sa che ristabilire un equilibrio in Afghanistan sarà impossibile senza il ruolo dell'Iran.

L'America avrebbe tutto l'interesse a coinvolgere la Repubblica Islamica per calmierare l'influenza del Pakistan, considerata la rivalità tra i due Paesi. La presenza di Teheran redistribuirebbe il peso negoziale intorno al tavolo di Doha, ridimensionando la forza contrattuale di Islamabad. La quale non vede di buon occhio l'attivismo qatarino poiché nella partita dell'emirato avrebbe solo da perdere. L'idea (o la speranza?) degli USA, infatti, è che una volta accettata la mediazione del Qatar, i taliban guarderanno a Doha e non più alla casa madre pakistana, rendendo del tutto vana l'influenza dell'ISI nelle dinamiche del dossier AfPak.

Rimane un dettaglio. Benché siano tutti concordi che il suo ruolo non potrà essere sottovalutato, nessuno pare essersi domandato cosa ne pensi Teheran di Mohammed Fazil, che nel 1998 fu coinvolto nell'eliminazione di otto diplomatici iraniani a Mazar-i-Sharif, dopo la conquista della città.

Tra i vari litiganti, ce ne è uno che gode. È la Cina, che ha tutto l'interesse ad una prossima stabilizzazione dell'Afghanistan per poi lanciarsi a sfruttarne le risorse minerarie e che al momentoe beneficia di riflesso degli ingenti sforzi umani e finanziari sostenuti dall'Occidente, non essendovi coinvolta né politicamente né militarmente.

Benché scettica sull'esito finale delle trattative, Pechino guarda con favore all'iniziativa dei colloqui in Qatar. La domanda in questo caso è quando sarà pronta ad aiutare Washington nella soluzione della guerra afghana. Per adesso si limita ad un ruolo marginale attraverso l'alleata Islamabad, come dimostrato dalla recente visita del capo dell'esercito pakistano Kayani in Cina. Così rimane alla finestra, in attesa di viaggiare verso Kabul lungo le autostrade geopolitiche faticosamente asfaltate dall'Occidente.

Infine, l'ultima domanda è cosa ha da guadagnare il Qatar. La diplomazia dell'emirato si è dimostrata molto abile nel cavalcare le onde che nell'ultimo anno hanno travolto il Medio Oriente, favorita anche dall'informazione populista di al-Jazeera. Ma tanto attivismo ha dato luogo a molti risentimenti, non soltanto presso i regimi arabi.

I sauditi sono piuttosto sospettosi di Doha, sia a causa delle pressioni sulla Lega Araba per favorire la caduta di Assad in Siria che per il fatto di mantenere un canale aperto con l'Iran. Sia Doha che Ryadh, attraverso lauti finanziamenti alla Fratellanza Musulmana e ai gruppi salafiti, hanno contribuito al successo dei partiti islamici in Tunisia ed Egitto. Se al momento i loro interessi sono stati sostanzialmente convergenti, prima o poi le due monarchie finiranno per pestarsi i piedi. Si va verso una “lottizzazione” del futuro scenario mediorientale, con le reciproche sfere d'influenza ben definite all'interno di Egitto, Tunisia, Libia e di ciascun altro Paese in cui la volontà degli elettori consegnerà all'Islam la legittimazione a governare.

Ma in Afghanistan, dove gli echi di Ryadh non arrivano perché smorzati dall'Iran, sarà solo Doha a levare la propria voce.




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