giovedì 5 gennaio 2017 - Phastidio

Lavoro non retribuito nella PA e rischio corruzione: unire i puntini

Egregio Titolare,

in questi giorni si parla di “lavoro” per lo più in ragione dei dati sull’andamento dell’occupazione, dei profili attinenti all’eventuale prossimo referendum, di recenti licenziamenti. A fronte di argomenti di tale importanza, quello che le segnalo sullo stesso tema potrà apparirle irrilevante. Tuttavia, come lei sa bene, chi non si abitua alla disinvoltura con cui il legislatore nazionale opera in maniera poco rispettosa del contesto normativo esistente, non riesce neanche ad astenersi dal rimarcare talune palesi incongruenze.

di Vitalba Azzollini

 

 

Questa volta, in particolare, il riferimento è ad alcune disposizioni con le quali il precedente governo ha consentito che i dipendenti in pensione potessero svolgere lavoro non retribuito per la P.A., a determinate condizioni. Dapprima, con la legge n. 90 del 2014 ha previsto, tra le altre cose, che incarichi dirigenziali, direttivi, di studio o di consulenza potessero essere affidati a personale in quiescenza, purché senza compenso e con il limite di un anno; poco dopo, con la legge n. 124 del 2015, ha allargato le maglie della previsione, permettendo che a pensionati fossero conferiti a titolo gratuito incarichi di studio o di consulenza e di cariche in organi di governo senza alcun limite temporale; il termine annuale è rimasto esclusivamente per gli incarichi dirigenziali e direttivi.

Tali norme non sono state oggetto di particolare interesse all’epoca della loro emanazione, dato che riguardano una parte marginale di soggetti: nonostante l’attenzione riservata alla Carta lo scorso anno, a molti dev’essere sfuggito che esse violano il principio costituzionale per cui a ogni prestazione lavorativa resa deve corrispondere una retribuzione proporzionata (art. 36 Cost.). L’argomento torna di attualità a fronte di una recente deliberazione della Corte dei Conti, sezione controllo della Campania (n. 244/2016): la pronuncia si segnala non solo in quanto chiara e decisa (come ha scritto Luigi Oliveri, relativamente a certe contraddizioni espressive del Consiglio di Stato, si plaude a decisioni che connotano “un operato deciso e privo di infingimenti”); ma altresì perché sembra fare luce – anzi, gettare un’ombra – sulle norme in tema di lavoro senza corrispettivo sopra menzionate.

La delibera della Corte ribadisce, richiamando una serie di prescrizioni a supporto, che il rapporto di lavoro subordinato riveste un carattere necessariamente oneroso. Inoltre, per il pubblico impiego, la imprescindibile soggezione al potere di controllo e di indirizzo – al fine della realizzazione degli obiettivi istituzionali – di chi venga inserito nell’organizzazione amministrativa richiede l’instaurazione di un rapporto di servizio, “incompatibile con una logica di precarietà giuridica conseguente alla gratuità delle prestazioni”.

La Corte rileva altresì che il lavoro non retribuito è ammesso nei soli casi espressamente disciplinati dalla legge, indicando l’esempio di quello svolto nelle organizzazioni di volontariato: “la finalità di solidarietà in luogo di quella lucrativa” è dunque il criterio in base a cui possono considerarsi consentite ipotesi di lavoro non remunerato. La pubblica amministrazione è evidentemente tutt’altro.

La deliberazione della Corte dei Conti non ha un contenuto innovativo, limitandosi a ribadire quanto già espresso da pronunce precedenti: la libertà di far lavorare senza compenso nell’ambito della P.A. trova paletti, sanciti da norme e principi giuridici, che non possono essere superati. Eppure, il ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione – confermato da poco nel nuovo governo – ignorando (scientemente?) le cautele che debbono presiedere all’espletamento di attività nell’ambito della P.A., non ha esitato a emanare le disposizioni sopra esposte.

All’osservatore disincantato non resterebbe che prendere atto dell’operato del citato ministro, constatando per l’ennesima volta che in Italia sono un’opinione non solo i dati numerici – come lei non manca di rimarcare costantemente, caro Titolare – ma anche le regole del diritto: la c.d. post-verità evidentemente supera tutto il resto.

Ma poi quell’osservatore legge la bozza delle linee guida dell’Anac sull’attuazione di una specifica norma del d.lgs. 33/2013 (c.d. Foia) – che, in conformità a quanto contenuto nel decreto, escludono da obblighi di trasparenza “incarichi o cariche di amministrazione, di direzione o di governo”, quando conferiti senza la corresponsione di alcuna forma di remunerazione, indennità o gettone di presenza – e si domanda: possibile che il legislatore, dopo aver disatteso chiare regole esistenti per gli incarichi non retribuiti, li sottragga anche agli obblighi di disclosure prescritti per quelli retribuiti, forse con il pretesto che non incidono sul bilancio dello Stato? Possibile non abbia ancora compreso come, negli ultimi anni, certe “parti correlate” col potere, ma avvolte da un’opacità variamente legittimata, abbiano prodotto danni rilevanti per la collettività? Possibile voglia ignorare che la mancanza del vil denaro non garantisce l’assenza di altre contropartite, la cui corresponsione potrebbe essere favorita dall’assenza di trasparenza?

Sarebbe fin troppo facile unire i puntini delle domande formulate per tracciare il disegno unitario che ne risulta. Tuttavia, poiché è sempre meglio nutrire dubbi anziché certezze, l’osservatore disincantato aspetta sia la realtà a dare quelle risposte che non arriveranno da parte di “chi di competenza”, come dicono i burocrati della P.A., appunto. Egli è consapevole del fatto che non sarà il nuovo anno a far cambiare il verso dei politici nazionali: Capodanno è una convenzione calendariale, del resto…come il nuovo governo?




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