lunedì 26 settembre 2016 - Piero Tucceri

La società, la fretta e le parole

Viviamo in una società contraddistinta dalla fretta. Ormai, chissà perché, facciamo tutto in fretta. Ormai, andiamo tutti di fretta. Mangiamo persino in fretta. Dal momento che siamo vittime di una acquisita frenesia indotta dai ritmi lavorativi imposti dalla società industrializzata.

Con il trascorrere del tempo, la fretta si è sempre più stratificata nel nostro comportamento, tanto da assumerne una peculiarità caratteriale. Non a caso, dietro il modo di fare di ciascuno di noi, si cela sempre un vissuto: una esperienza della quale spaventa il fatto che nessuno abbia poi il tempo per raccontarla e che gli altri non abbiano il tempo per poterla ascoltare e, ancor più, per poterla recepire. A qualcuno potrebbe sembrare strano questo orientamento della dinamica sociale, dal momento che viviamo un'epoca segnata dalla moltiplicazione dei mezzi di comunicazione: dal cellulare, alla posta elettronica e ad altro. Sebbene accanto a essi, sopravvivano i mezzi classici della comunicazione.

Nei sempre più rari momenti che abbiamo per poter parlare, cosa riusciamo a dire effettivamente? E, ancor più, quanto resta di quello che diciamo? Cosa rimane, qual è l'essenza delle nostre parole pronunciate e di quelle che ascoltiamo? Nell'odierno contesto sociale, esse perdono tanto la loro forma quanto la loro sostanza, poiché vengono immolate ai piedi della presunta efficacia dell'accumulo dei dati. Per cui, cosa rimane di ogni singola notizia se questa rischia costantemente di affogare in mezzo a tante altre? Se essa non trova lo spazio per poter entrare dentro ciascuno di noi per farci riflettere e per motivarci nella relativa azione?

Se, come sembra, non riusciamo più a fare distinzioni, come possiamo capirci per poter discernere per quale di esse valga la pena impegnarci? Il fatto di accumulare informazioni, ci rende soltanto virtualmente consapevoli di esse, mettendoci nel contempo in difficoltà nell'assegnar loro una gerarchia e relegandoci così in una condizione di impotenza di fronte alla loro quantità, con il conseguente rischio di renderci inoperativi.

In un simile contesto, una domanda si dimostra di cruciale importanza: perché usiamo le parole? Indubbiamente, lo facciamo per garantirci un sicuro appiglio alle cose di questo mondo. Così si capisce perché esse non siano creazioni prescindenti dalla nostra condizione umana, ma che rappresentino strumenti capaci di farci descrivere il mondo in cui viviamo, sia esso reale che fantastico, e quindi per farci opportunamente interagire con esso.




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