giovedì 8 giugno 2017 - Giuseppe Aragno

La “sicurezza” campana e la morte della democrazia

Come si fa a parlare alla gente, in un tempo di gravissima crisi economica, quando la necessità di far fronte all’ondata reazionaria che cancella diritti in nome della “sicurezza”, si scontra ogni giorno con la fatica di chi non sa come sbarcare il lunario? Come si parla a chi è già pronto a combattere con ferocia tutte le possibili guerre tra poveri? Chi vuoi che ascolti la lezione della storia o stia lì a riflettere sul rapporto che lega la “continuità dello Stato” al prezzo che sta pagando con una vita senza futuro e i suoi sogni distrutti? C’è chi te lo dice chiaro: la gente non vuole “pensare”, chiede soluzioni. Tu parli alla testa, ma chi punta alla pancia fa molto più presto e ti ruba l’attenzione.

Ai primi del Novecento, il socialista Ernesto Cesare Longobardi poneva ai suoi compagni la stessa questione e invitava a riflettere: non si può parlare di organizzazione e solidarietà a chi non sa come mettere insieme il pranzo con la cena. Si puntò allora sulla lotta nei territori e sulla conquista degli Enti Locali. In Campania, Gino Alfani e la sua Torre Annunziata furono un modello insuperato di quell’Italia dei “Comuni rossi” e di un riformismo “rivoluzionario”, che puntava alla trasformazione strutturale della società e quel modello che può ancora insegnarci qualcosa.

Sulla scena c’erano due protagonisti: sindaci e amministrazioni che non accettavano l’esistente – “rivoluzionari” per quanto può esserlo un’Istituzione – e movimenti popolari di base organizzati e consapevoli. Non s’erano mai fatti tanti passi avanti quanti se ne registrarono in quegli anni.

Non credo sia una forzatura: mutato ciò che va mutato, c’è un filo diretto tra la Napoli di oggi e quella stagione felice della nostra storia. Non so dove si possa arrivare, so che è un processo avviato su due binari: la realtà locale e un modello da esportare. Senza la prima l’altro è condannato alla sconfitta e c’è qualcosa che manca perché le due situazioni siano pienamente comparabili. Al momento uno dei due elementi di quel binomio vincente – il movimento – non è forte come dovrebbe e questo indebolisce l’intera esperienza. Se si lavorasse per farlo nascere, avremmo idee, uomini e capacità per muoverci nella crisi. E qui torna il discorso da cui sono partito.

E’ un’impresa, lo so, ma se si fossero avviati concretamente – e si sarebbe dovuto già farlo – percorsi di formazione e di scambio, se alla base dell’azione amministrativa esistesse un movimento forte, coeso, con una “linea” e strutture in cui consentire a chi vuole di raccontare l’immane fatica fisica e soprattutto psichica della gente, per poter tener vivo un confronto tra i molteplici soggetti colpiti, un luogo in cui chiedere e allo stesso tempo dare contributi, se tutto questo esistesse, siamo davvero certi che, per fare un esempio, il discorso sulla “sicurezza” andrebbe nella direzione che vuole Minniti?

Se, come appare evidente, nessun partito o gruppo ha vinto il referendum, ma è stata la gente massacrata a battere il governo, è proprio sicuro che non troveremmo persone interessate a scoprire cosa c’è dietro Minniti, quanto tutto ciò che stiamo vivendo somigli a terribili esperienze passate e qual è la logica che guida l’indecorosa questione del decoro urbano? Non parleremmo forse del presente, del lavoro negato, della precarietà e della repressione, se provassimo a ripercorrere la sorte dei disoccupati, degli sfruttati, dei più deboli ed emarginati negli anni in cui qualcuno, proprio come fanno oggi Minniti e De Luca, scriveva con infinita arroganza che “mai, sotto nessun governo, i disoccupati furono soccorsi con tanto amore e con sì generoso contributo d’affetto come sotto l’egida littoria”?

Lo faremmo perché, come oggi, le scarsissime risorse venivano contese fra la povera gente e ogni giorno, nel silenzio della stampa, aspri dissidi mettevano l’uno contro l’altro chi non aveva famiglia e chi aveva da pensare ai figli e alla moglie. Come oggi, alle Autorità locali non si assegnava un ruolo, se non quello repressivo. La fame e la disperazione si toccavano con mano nelle città e dovunque sorgevano d’incanto bancarelle e ambulanti, che non bastavano a mascherare una vera e propria mendicità.

Anche allora la criminalizzazione di ogni protesta spianò la via ai provvedimenti di polizia. Prima di tutto si batté in breccia su “quel larvato disfattismo economico ed industriale che ha trovato nella deprecatissima «crisi» una bandiera d’adunata”. La crisi, si scrisse, “c’è, nessuno lo nega: ma non bisogna drammatizzarla; è pur vero che i teatri e i campi di calcio sono sempre pieni, i cinema gremiti, le assicurazioni in aumento, i delitti contro la proprietà e le persone in diminuzione; e soprattutto, fa pensare il fatto che della crisi si lamentino non tanto i disoccupati quanto certuni che non debbono davvero stringere la cinghia per sbarcare il lunario…”. Questa vergogna non l’ha inventata Berlusconi.

La gente non sa, ma non è stupida e sente istintivamente che chi ha ottenuto con l’inganno e la prepotenza il potere politico oggi come ieri mira a distruggere ogni “bandiera d’adunata”. Non è difficile trasformare la conoscenza istintiva in autentica consapevolezza, moltiplicando le “adunate”. Il processo lo conosciamo: se disoccupati e sfruttati aumentano di dieci e cento volte, si passa ai provvedimenti di polizia. Quando per “sicurezza” si intende difesa dei privilegi, i Minniti d’ogni tempo hanno la ricetta pronta ed è sempre la stessa: la multa, l’arresto e l’espulsione con foglio di via.

Indigeni o immigrati, con il passare del tempo non fa differenza. Mentre i disoccupati si danno al commercio ambulante, alla vendita porta a porta, che tende a confondersi con l’accattonaggio e mirano a “sparire” per paura della polizia, le scelte si fanno feroci e nel mirino entrano gli ultimi, al di là del colore della pelle.
Facciamo in modo che chi soffra non si nasconda, parliamo di quello che in fondo essi sanno: la razza non c’entra. Locale o straniera, la povertà sta diventando “colpa” perché è un peso per le assicurazioni sociali. E’ per questo che l’apparato di controllo provvede alle schedature individuali e familiari, registra posizioni rispetto all’occupazione e alla prima occasione colpisce senza pietà. La repressione stronca la capacità di mobilitazione collettiva e in un clima di ostilità generalizzata verso gli ultimi arrivati, fomentato dalle autorità, si parla di movida da imbrigliare, ordine da ripristinare e decoro da tutelare.

A chi ha fame per ora forse non puoi parlare. Chi non ne ha, ma rischia di arrivarci, puoi tirarlo dalla tua parte, così come puoi attirare chi non si sente rappresentato. Su questa base di consenso un’Amministrazione può fondare scelte di rottura. Scelte che sono più necessarie dell’aria. Se questo è un sogno – e potrebbe anche esserlo – prepariamoci al peggio. Svegliarsi sarà un autentico incubo.

(Foto: Camera dei deputati/Flickr)




Lasciare un commento