lunedì 16 maggio 2016 - Traiettorie Sociologiche

L’immaginario della paura e il terrorismo del terzo millennio. Dove l’Ombra cupa scende

di Adolfo Fattori

New York-Parigi-Bruxelles.

Se pensiamo al dispiegarsi del terrorismo fondamentalista pensiamo subito, automaticamente, agli attentati che hanno colpito questi tre luoghi, per ora i cliffhanger che scandiscono una sceneggiatura di distruzione e dolore di cui – sembra – difficilmente vedremo una conclusione rapida.

Un fenomeno che pare difficile non solo da sradicare, ma addirittura da circoscrivere, nelle sue vere, profonde articolazioni.

Quello che veniamo a sapere – e tendiamo a immaginare – ci viene dalla cronaca, quella dei quotidiani, dei telegiornali, delle “testimonianze” sul web di coloro che si sono trovati – sfortunatamente – coinvolti, e – per loro fortuna – salvati.

Pure, decine di anni di ricerche e studi post-coloniali dovrebbero darci indicazioni, spunti di analisi, motivi di riflessione…

Niente da fare, invece. Quelle in cui ci imbattiamo sono – sempre – le analisi occidentali, istituzionali, “politicamente corrette”, naturalmente, in cui, dopo i doverosi omaggi alle ragioni dei disperati di “fuori”, ci si torna a concentrare sul punto di vista occidentale-bianco-liberale (o liberal, se si vuole, ma…). E dimentichiamo sistematicamente le centinaia – migliaia – di morti che si accumulano in Medio Oriente e in tutte le altre aree del mondo, il “Terzo”, quello delle “vite di scarto”, dei “dannati della terra” , dei paesi perennemente “in via di sviluppo” – secondo le illusioni deresponsabilizanti dei ben intenzionati e le ipocrisie dei linguaggi istituzionali.
Nel calderone degli eventi – e dei discorsi sugli eventi – si perde qualcosa, l’eccessiva informazione genera rumore, e ci si dimentica di guardare al dato più importante, al fatto che ormai le grandi migrazioni dal resto del mondo verso l’Occidente hanno quasi mezzo secolo.

 

Approccio completamente diverso quello assunto da Gaia Giuliani, ricercatrice bolognese proveniente dall’area degli studi post-coloniali e dalle ricerche di gender, in Zombie, alieni, mutanti. Le paure dall’11 settembre a oggi (Le Monnier, Firenze, 2015, pagg. 200, € 15,00), che affronta la questione da un punto di vista completamente diverso, inatteso, eccentrico. Ma, credo, estremamente produttivo.

La paura e il pregiudizio nei confronti dell’Altro rimangono vive anche se a volte opache, nascoste, spesso inaccettabili in noi bianchi, occidentali – e aggiunge Giuliani maschi – ma riemergono, a volte nei luoghi più imprevisti, laterali. Sicuramente nell’immaginario collettivo, e nelle sue espressioni – come il cinema, le tv-series, su cui la ricercatrice si concentra – e naturalmente nella cronaca e nei commenti giornalistici.

Gaia Giuliani si concentra sulla produzione di immaginario post 11 settembre, e va a cercare anche nei prodotti meno prevedibili le tracce della paura dell’Altro, un altro razziale, che rimane irriducibile a noi, e che viene mascherato utilizzando le figure aliene per eccellenza che il Novecento ha elaborato per nutrire il suo immaginario di massa. A partire dagli zombie, per passare attraverso gli alieni e i mutanti della science fiction per arrivare ai cloni.

Tutte figure della paura, dell’alterità assoluta, della mostruosità, o almeno del perturbante, nel caso dei cloni. Tutte figure che – nell’immaginario tradizionale – ci mettono di fronte alla perdita di qualsiasi ancoraggio o certezza, alla perdita di quella “sicurezza ontologica” che tiene insieme la nostra identità. E di cui scopriamo caratteri e tratti nuovi se andiamo oltre i consueti discorsi e le tradizionali analisi sul loro statuto e sul rapporto che hanno con la cultura di massa e l’immaginario collettivo, se passiamo ad un piano di ricerca che prova ad andare oltre la dimensione “umana” come definita dall’Umanesimo occidentale per ragionare in termini di “postumano”.

Così, se per la critica e la ricerca istituzionali (anche le più eccentriche) gli zombie nascono come figure che superano, per così dire, la soglia dell’orrore soprannaturale, della terra di nessuno che si trova fra la viota e la morte e si istituiscono come figure del lavoratore salariato, e gli alieni e i mutanti della fantascienza appaiono come metafore del nemico tradizonale, ma assoluto e irriducibile, tutte e tre le figure, se pensiamo alle strategie di riduzione e definizione dell’estraneo all’Occidente, diventano rappresentazioni – criptate, subliminali, se pensiamo a come le abbiamo da sempre catalogate – del non-bianco, non-occidentale, non-maschio. L’immensa torma degli extraeuropei di qualsiasi origine, a cui sono da aggiungere i figli di immigrati, anche da generazioni, in Europa. Tutti coloro che, a essere rigorosi, non possono essere attribuiti in pieno al pedigree, alla progenie dell’uomo così come definito dall’Umanesimo.

Gaia Giuliani rintraccia gli indizi di questo quadro, situato nella profondità delle nostre rappresentazioni sociali ma convincente, nella cinematografia e nelle serie tv di science fiction e horror del terzo millennio, concentrandosi sugli zombies, sui mutanti, sugli alieni, e alla fine sui cloni, mostrando come in tutte queste produzioni, a guardare con attenzione, emerga la “cattiva coscienza” dell’Occidente, ben nascosta sotto le iperboli dell’immaginario tecnologico.

Cattiva coscienza che invece si dispiega arrogante nei disaster movie con al centro lo scatenamento delle forze della natura, come lo tsunami che colpì il Sudest asiatico nel 2006, in cui l’attenzione dei registi si concentra solo sulle azioni degli occidentali coinvolti, lasciando sullo sfondo o ignorando del tutto le vere vittime del disastro, le popolazioni di quelle zone, le loro sofferenze, il loro dolore…

È evidente che – metaforizzata o meno sotto le varie figure dell’altro – la presunzione ancora tolemaica della centralità nel mondo e nella storia del maschio bianco occidentale lavora ancora attivamente in profondità, orientando il nostro immaginario, al di là delle migliori intenzioni, come scriveva anni fa Leslie Fiedler in La tirannia del normale (1998) e più di recente David Foster Wallace in Considera l’aragosta (2006) scagliandosi contro il vezzo degli esponenti del politically correct di usare perifrasi al posto dei termini comuni – specie quelli che hanno connotazioni spregiative – applicando però un rimedio peggiore del male, come, per citare Foster Wallace, usare il termine “paesi in via di sviluppo”, denso di speranza e ottimismo, per aree del mondo che – stanti le condizioni attuali e l’egemonia del capitalismo finanziario attuale – lo sviluppo se lo sogneranno ancora a lungo…

Anzi, forse da qui possiamo trarre una riflessione più generale. In tempi di dibattuito sul “postumano” nelle sua varie declinazioni (dai migranti, agli Lgbt, ai futuri cloni) dovremmo temere che il futuro, invece di proporci nuove libertà e nuove cittadinanze, distorca queste ultime solo nei termini dell’allargamento istituzionalizzato dello sfruttamento e dell’oppressione.

Forse questa versione del postumano è la più probabile: quella in cui il termine traduce e riscrive il concetto di dis-umano. Quella in cui qualsiasi favola e retorica sulla libertà dell’iniziativa privata come fonte di benessere e ricchezza per tutti si svela definitivamente, mostrando la sua versione più vera: feroce, selvaggia, spietata.

 

Bibliografia

Leslie Fiedler, La tirannia del normale, Donzelli, Milano, 1998.

David Foster Wallace, Considera l’aragosta, Einaudi, Torino, 2006.

 

 




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