venerdì 19 gennaio - Giovanni Greto

Jazz e Easy Listening al Blue Note di Tokyo

Onishi Junko e Patti Austin riscaldano un pubblico infreddolito per il clima meteorologico

 

 ONISHI JUNKO Foto di YUKA YAMAJI

Un gran bel concerto, quello di Onishi Junko (Kyoto, 16 aprile 1967), talentuosa pianista e compositrice, ospite quasi annuale del famoso locale di Tokyo, dove questa volta ha suonato solamente un giorno, nei consueti due set.

Assisto al primo, di 72 minuti, in cui hanno trovato spazio otto brani più un bis, che la simpatica musicista ha eseguito rimanendo sul palco, evitando, rivolgendosi alla platea, il consueto giochino del dirigersi verso i locali della ristorazione, per poi ritornare subito indietro.

Si presenta alla testa di un quartetto, affiatato, nato come trio nel 2020, allargatosi nel 2021, con l’ingresso di Ogimi Gen (3 dicembre 1963), un percussionista appassionato di ritmi cubani, spesso arricchiti da una vocalità nell’idioma Yorubà.

Sei brani – quasi tutti di Onishi – facevano parte del CD Grand Voyage, registrato a settembre del 2021.

Il set inizia con It’s a fine Day, un afro-latin Funk a tempo medio-lento, che via via acquista velocità. Onishi comincia a improvvisare ritmicamente e già traspare l’amore per i ritmi latini.

Tecnica indiscutibile e bel gusto melodico, con l’inserimento di Stop e di un ostinato di tre note nella parte bassa, che stimolano il colore delle percussioni, un bel groove del batterista Kira Sota (Shikoku, 1989) e un drive infaticabile del contrabbassista Inoue Yosuke (Osaka, 16 luglio 1964).

A lui Onishi lascia abbastanza spazio, nel corso del Recital, cosicchè sono venute fuori anche le sue qualità melodiche oltre a quelle ritmiche.

Scorrendo la scaletta, mi è piaciuto il breve Tridacna Talk, un duo percussioni/batteria, che inizia in sordina, per poi trovare uno sviluppo poliritmico, con in evidenza congas, bongos, timbales e piatti.

Dopo lo stop finale all’unisono, subentrano il pianoforte e il contrabbasso, con tre note iniziali che ricordano l’avvio di Birdland dei Weather Report. Invece il brano si intitola High Tide, medio-lento e melodico, con le tre note che ritornano per lanciare i fraseggi di Ogimi e Kira.

All’Alta Marea, fa seguito subito Low Tide, a velocità più che raddoppiata, quasi uno sviluppo del precedente. Il tema ha degli obbligati e, in primo piano, c’è un assolo di Onishi, elegante, rapido, senza sbavature.

E’ il momento di Kippy, una composizione di Dollar Brand. E’ una ballad morbida, dolcemente triste, che arriva al cuore, bisognoso di dimenticare l’odio senza fine che circola nel mondo.

Si arriva a Wind Rose, che inizia con un’introduzione pianistica e un fugace inserto dal bridge di In a sentimental Mood di Duke Ellington. Ed ecco le percussioni e il 4/4 sul piatto Ride a emergere per indicare il tempo da seguire. Dal vivo dura di più che in studio, grazie a una Onishi particolarmente ispirata.

Il bis, The Christmas Song, è un omaggio ai grandi Crooner americani. In questo caso, i riflettori sono puntati su Ogimi, che si è espresso in un inglese accettabile, non prima di ricordare che il giorno del suo compleanno, per festeggiarlo, fossero usciti due CD, Shaft e Ring. La canzone ha richiamato l’imminente arrivo delle festività, anche se a Natale i giapponesi lavorano, e il suo significato è soltanto consumistico.

Applausi e sorrisi hanno salutato una pianista tanto brava, quanto per niente diva, che ha chiacchierato durante il set del più e del meno con il pubblico, una caratteristica tipica di molti musicisti giapponesi.

PATTI AUSTIN Foto di TAKUO SATO

Tre giorni dopo ottiene quattro giornate di programmazione la cantante americana Patti Austin (Harlem, New York, 10 agosto 1950), amatissima dal pubblico giapponese, in prevalenza di seconda, se non terza età, che ha riempito il locale, almeno il primo giorno, cui la mia recensione fa riferimento (per il primo Set).

Era la terza volta che si esibiva nel locale che ha un pubblico unico al mondo. La prima fu nel 2013, la seconda verso la fine del 2017, per festeggiare il centenario della nascita di Ella Fitgerald (25 aprile 1917 – 15 giugno 1996). Nel 2002 la Austin aveva inciso For Ella, un CD che le consentì nel 2003 di ottenere una delle molte Nomination, a cui ci tiene tantissimo, ai Grammy Awards. Quell’anno, però, si è sfogata con disappunto, vinse Diana Krall, per l’album “Live in Paris”. Spero di vincere nel 2024 (con “For Ella 2”, uscito lo scorso anno)ha concluso abbassando la voce – perché il mio nome compare nelle Nomination, mentre quello di Diana no.

Comunque, dopo nove Nomination, nel 2008 ottenne il suo unico, finora, Grammy “Best Jazz Vocal Performance” per l’album Avant Gershwin (2007).

Il set è durato quasi 70 minuti. Dieci canzoni easy listening, di facile ascolto, per niente jazzistiche, ad eccezione dello Standard They can’t take that away from me, iniziato con uno Scat non molto sicuro, ma poi sviluppatosi in un tempo di Funky lento, davvero un confronto improponibile con le interpretazioni della grande Ella.

Il Set si era aperto con una Medley a tempo di Discomusic, Quincy Jones Temperton Medley, comprendente tre pezzi : Stomp - Give me the Night, uno dei successi di George Benson - Razzmatazz.

Patti fa ripetere al pubblico un doppio EE..., fino a concludere una Medley che sarebbe stata perfetta per un veglione di Capodanno, frequentato da persone molto spesso prive di gusto musicale.

Si prosegue con Say you love me e Baby, come to me, due esili canzoncine pop, la seconda di Rod Temperton, celebre compositore inglese di successi, scomparso nel 2016, che scrisse il succitato hit di Benson e Thriller per Michael Jackson.

La Austin, con questo brano rimase in testa alle classifiche per molte settimane nel 1982, grazie anche al duetto con James Ingram, pure lui, ha ricordato, scomparso, ma nel 2019.

Prima di eseguire il brano successivo, la cantante ha ricordato che l’autore della musica, Michel Legrand, non c’è più dal gennaio del 2019. How do you keep the Music playing, fu un altro successo, ancora una volta interpretato in coppia con Ingram.

Sono brani di facile appeal, ma che una volta ascoltati non ti lasciano nulla. Sopra tutto necessitano di essere eseguiti da musicisti che sappiano arricchirli. Non certo quelli selezionati per il Blue Note. Non si salva nemmeno l’arrangiatore e primo tastierista Kim Hansen.

Sonorità brutte, tutto è sembrato assemblato alla bell’e meglio.

Forse gli agenti di Patti puntano a risparmiare sul cachet collettivo.

Il quintetto comprendeva una seconda tastierista, Noriko Olling, addetta a colorare qua e là. La figura migliore l’ha fatta il chitarrista giapponese Takashi Masuzaki (Nagasaki, 8 dicembre 1962), autore di qualche improvvisazione discreta.

Privi di mordente sono apparsi il bassista elettrico Erich Sittner e il batterista Land Richards.

La canzone più bella avrebbe potuto essere What the World needs now is Love, dal nutrito Songbook di Burt Bacharach. Ma Patti l’ha utilizzata per prendere tempo e far cantare, divisa per sesso, la platea.

Alle signore ha chiesto di cantare la prima parte della frase iniziale della canzone : What the World needs now. Agli uomini la seconda : is Love, sweet Love.

A concludere il grigio, climaticamente, pomeriggio, vista la vicinanza al Natale, l’interpretazione di una canzone composta nel 1943 da Hugh Martin e Ralph Blane per la pellicola Meet me in Saint Louis e cantata da Judy Garland : Have yourself a merry little Christmas.

Patti si è fatta accompagnare soltanto dalla tastiera. Purtroppo il registro “pianoforte acustico” è parso lontano dalla resa che avrebbe avuto la canzone se fosse stata eseguita allo strumento classico.

Queste sono le mie sensazioni. La gente alla fine ha applaudito, a tratti anche rumorosamente e la cantante, nell’uscire dal palco passando vicino ai tavoli ha stretto le mani, mentre un ultimo spettatore ha scambiato con soddisfazione un 5 sportivo.

 




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