domenica 31 luglio 2016 - M.Hamzehian

Iran, nell’estate del 1988 la strage dei prigionieri politici

Ancora gridano le carceri in Iran, chiedono giustizia civile i famigliari e gli ex prigionieri politici nel 28° anniversario del genocidio. Si calcola che durante l'estate del 1988 il regime iraniano uccise diverse migliaia di prigioneri poltici

Senza dubbio il regime del giureconsulto, nella storia recente dell’Iran, rappresenta un evento senza precedenti. Non dimentichiamoci che il califfato, nell’era moderna nasce per la prima volte in Iran nell’anno 1979. 
Il collettivismo politico iraniano in opposizione al regime della Repubblica Islamica dell’Iran (a prescindere dall’orientamento politico e/o ideologico)... Tutti sono in comune accordo nel sostenre che l’estate 1988, fu la stagione del genocidio dei prigionieri politici in Iran. 
L’intervallo trascorso tra 1980-1988 è stato un periodo buio nella storia dell’Iran, il prodotto di un concepimento malformato, rivelatosi anche antimodernista: la sharia, infatti, diventò un elemento di continuità sociale, soffocando ogni anelito di speranza per la fioritura della democrazia nel giardino dell’altopiano asiatico.

A solo un anno dalla cacciata dello Scià, cioè della dinastia che aveva saccheggiato la ricchezza dell’Iran, è cominciata la caccia contro gli stessi che avevano partecipato attivamente alle lotte. Nel periodo dello scià, la religione era tollerata dalla famiglia reale e normalmente presente tra la popolazione. Tuttavia, il dominio Pahlavi sottovalutò un elemento fondamentale: il peso e il ruolo degli intellettuali religiosi. Dopo il rovesciamento del regime Pahlavi c’è stato un processo che ricorda l’arabizzazione forzata, un tentativo di spazzare via la cultura millenaria dell’Iran. 
 

Il dominio sulla pubblica istruzione da parte della Repubblica Islamica, venne spacciato come una “rivoluzione culturale”, il primo risultato devastante fu l’espulsione di oltre 40.000 tra insegnanti degli istituti superiori e docenti universitari, perché ritenuti maktabi (religiosi), quindi inutili. Furono cancellati i diritti ottenuti dalle donne: radio e televisione subirono censure continue, furono incarcerati attori del cinema, del teatro e scrittori.

Questi ultimi (i pochi rimasti ancora in attività) furono obbligati ad iniziare i loro libri in nome di Dio misericordioso, ricordando nei loro scritti il martirio dei santi. Il risultato fu che l’ordinamento giuridico della Repubblica islamica, e il dominio su tutti i settori della società, impediva la presenza di figure non appartenenti alla nomenclatura religiosa. La soggettività nella società ha finito per perdere ogni valore: tutti devono vestirsi allo stesso modo, pensare allo stesso modo, agire allo stesso modo. Ogni dibattito deve essere sempre canalizzato verso il sistema divino (del resto il pensiero religioso al potere non risponde agli uomini ma a Dio). 
 

I dittatori non possono mai accettare le persone per quel che sono. Devono comprimere la naturale diversità tra le persone, soprattutto quando questa diversità offusca i loro centri di potere. Non bisogna dimenticare l’annientamento del diritto all’autonomia e all’autodeterminazione dei popoli e delle minoranze etniche e religiose, il non riconoscimento dei rappresentanti dei consigli di fabbrica. 
 

Ecco allora il perché della protesta del Paese, compresi molti religiosi non assorbiti nel regime, di laici, di giovani, di donne, di anziani, che sono stati in grado di far temere al regime di essere annientato dagli stessi che rovesciarono il regime di Pahlavi.
I pasdaran che agivano su tutto il territorio nazionale (dalle città più importanti, alle campagne del Turkaminstan, Kurdistan, Belucistan e Khuzistan) durante le operazioni repressive utilizzavano ogni elemento “non in linea” trovato nelle case degli attivisti come corpo di reato. Tutto ciò che poteva essere dimostrazione di non aderenza e fedeltà al regime, era pretestuosamente utilizzato sia per massacrare di botte le persone sospette, che prova a carico nelle confessioni estorte sotto tortura.
Nell’anno nero (il 1980), le prigioni medievali (le stesse costruite dal regime Pahlavi), si riempirono di migliaia di giovani, vecchi, adolescenti e anche di donne incinte. Su tutto il territorio metropolitano erano presenti migliaia di posti di blocco pronti ad uccidere le persone fermate, se avessero tentato di opporre resistenza. Tutti i luoghi istituzionali come carceri, commissariati, ma anche case private e sotterranei erano straripanti di persone innocenti e inermi.
 

Il regime cominciò a massacrare i membri dei mujiahedin, dei laici e dei comunisti, nelle loro stesse case e coloro che sopravvivevano venivano finiti nelle carceri sotto tortura, come accadeva all’epoca dei militari argentini, come nel famoso film “Garage Olympia”. 
In seguito allo scoppio di un ordigno nell’ufficio centrale del partito islamico (che provocò 83 morti eccellenti della nomenclatura del regime), la dimensione del massacro divenne ancor più feroce. In quella fase il regime applicò non solo le regole della sharia, ma arrivò ad utilizzare membri dei servizi segreti dello Scia, cioè la temibile Savak.

Incredibile, ma vero: in quegli anni le famiglie, per avere la salma dei loro famigliari, dovevano pagare il prezzo delle pallottole utilizzate per uccidere i figli più nobili della società iraniana. 
In quell’anno cominciò anche un altro fenomeno vergognoso della storia del regime del giureconsulto, cioè l’uccisione delle donne e gli stupri collettivi. I documenti di diversi studiosi parlano di circa 15.000 bambini nati nelle carceri iraniane dall’inizio del regime.
Gli anni compresi tra il 1983 e il 1988 per molti motivi (tra cui numerose proteste internazionali dei difensori dei diritti umani, delle organizzazioni umanitarie e dei governi occidentali, contro il massacro in Iran), furono relativamente tranquilli, in realtà si trattò solo di un fuoco nascosto sotto le cenere, con una diminuzione numerica delle impiccagioni. 
Nel 1988, esattamente nel corso dell’estate, l’attacco armato dei Mujahedin sul territorio iraniano, proveniente dai confini dell’ovest con l’appoggio incondizionato del regime di Saddam, venne qualificato come un’azione militare di un esercito straniero. Il massacro in quell’estate non fu altro che la continuazione di ciò che il regime aveva iniziato nella società, all’inizio degli anni 80. L’ayatollah Khomeini nella preghiera del Venerdì, nella primavera dello stesso anno, decretò la morte per chi aveva dichiarato guerra alla repubblica islamica.

Khomeini li definì nemici di dio e rilasciò la seguente dichiarazione (si riportano frammenti della sua Fatwa):
“Poiché i Monafeghin (nome che nel linguaggio politico viene usato dal regime islamico nell’accezione di "nemici”, per denominare l’organizzazione dei Mujahedin del popolo iraniano), non sono credenti dell’islam e tutto ciò che sostengono è basato sull’inganno e sulla negazione, evidenziando che essi sono nemici giurati di dio e nella guerra contro l’islam sono appoggiati dai Basisti, risultano colpevoli e devono essere condannati a morte. Tutti coloro che si trovano in carcere, su tutto il territorio nazionale, e difendono la loro posizione, devono essere uccisi. La pietà nei loro confronti è solamente ingenuità. Spero che la vostra vendetta e la determinazione rivoluzionaria nei confronti dei nemici di dio e delle leggi dell’islam, attiri la sua (di Dio) benedizione"

Il figlio di Ruhollah (spirito di Dio) Khomeini, cioè Ahmad Khomeini, ordinò l’accelerazione della pena di morte decretata dal padre.
Così nell’estate 1988, improvvisamente, venne messo in pratica l’orrore decretato dallo Spirito di Dio (Ruhollah), nei confronti dei prigionieri politici credenti Sciiti (mujaheddin) e non credenti, compresi molti militanti delle organizzazioni di sinistra che avevano partecipato al rovesciamento del regime di Pahlavi. Va ricordato che la maggior parte dei capi del regime prima della rivoluzione iraniana, erano all’estero, compreso Khomeini, che rimase per 16 anni a Karbala (Iraq), e circa 2 anni in Francia.


Le carceri dove si consumò il massacro degli innocenti (1988), furono Evin e Gohardasht di Teheran. Ci sono molti documenti, e le stesse rivelazioni fatte dalle migliaia delle famiglie degli uccisi, che sottolineano come molte altre città fossero coinvolte su tutto il territorio nazionale. 
Il giorno in cui cominciò il massacro potrebbe essere datato tra il 18 e 19 luglio. Tuttavia nelle carceri il periodo dell’orrore cominciò almeno 10 giorni prima con la chiusura delle Tv, l’interdizione alle infermerie e la soppressione dell’ora d’aria dei prigionieri. Nella giornata del 19 Luglio i portoni furono chiusi, furono costruiti dei pali con la corda già pronti per impiccare inneggiando: “Allah o Akar ( Dio è Grande)”.
 

Nel mese di Agosto cominciò l’uccisione dei sostenitori di sinistra.
Il pubblico ministero, che era anche il boia (c’erano molti pubblici ministeri in ogni carcere), chiedeva ai prigionieri:
1. Sei musulmano? 
2. Credi in Dio? 
3. Credi nell’inferno e nel paradiso? 
4. Credi in Mohammad come ultimo profeta? 
5. Fai digiuno nel mese di Ramadan? 
6. Leggi il corano? 
7. Pregh i(fai Namaz), ogni giorno? 
8. Preferisci restare in cella con un mussulmano oppure con un non mussulmano? 
9. Sei d’accordo di firmare una dichiarazione dove affermi di essere credente in Dio, nel Profeta, nel Corano e credere nell’aldilà? 
10. Sei nato/a in una famiglia ove il padre faceva Namaz, Digiuno e leggeva il Corano?
 

Rispondendo di no, anche ad una sola delle domande (come dichiarano alcuni superstiti e Amnesty International), si creavano le premesse per essere condannati a morte: in particolare, l’ultima domanda, nel caso la risposta fosse affermativa, comportava la condanna a morte certa, poiché era gravissimo, per una persona con tradizione religiosa famigliare, violare tale continuità e quindi la condanna a morte era maggiormente giustificata.
Vi furono molte proteste nelle carceri, ma quasi tutti furono uccisi attraverso fustigazioni giornaliere, suicidi e altri tipi di torture. Le testimonianze dirette dei superstiti ricordano come molti dei loro compagni, nella quasi totalità, non tornarono mai più nelle loro celle. Alcuni superstiti si sono salvati dalla morte semplicemente per un errore di riga, a destra oppure a sinistra, dopo l’interrogatorio, da una parte si finiva con l’esecuzione capitale e viceversa dall’altra parte con la salvezza. 
Una parte dei prigionieri fu inviata in guerra contro l’Iraq, per sminare i campi. Nel mese di novembre (i documenti riportano la data del 25), sono state convocate le prime famiglie telefonicamente, perché prendessero in consegna gli effetti personali e l’eventuale testamento degli impiccati. Per evitare le proteste, i famigliari furono convocati a gruppi separati per molte settimane. Si comunicava ai famigliari che qualsiasi manifestazione privata e pubblica (cerimonia) del 40° giorno dalla morte del defunto, era severamente vietata.
Le uccisioni di persone avvenivano quasi esclusivamente mediante impiccagione perché il regime voleva tenere nascosto il genocidio dei prigionieri. I container con le celle frigorifere erano già presenti nei cortili delle carceri . 
I reclusi di orientamento marxista, in quanto impuri, venivano sepolti separatamente. In questo i carnefici modo hanno obbedito ai dettami della religione anche dopo la morte dei prigionieri. Venivano sotterrati quasi sempre nelle fosse comuni, il Cimitero Khavaran (a sud est di Tehran), adiacente al Cimitero di Bahaian, è una delle più grandi fosse scoperta dalla popolazione.
 

Amnesty International, dichiara che furono uccise oltre 2500 persone. Il numero degli uccisi, appartenenti a tutte le organizzazioni che hanno perso i loro militanti (va prestata attenzione al fatto che non tutti i massacrati avevano una appartenenza politica), come dichiarato dagli stessi membri delle organizzazioni, raggiunge la cifra di oltre 5000. 

Foto: Kamyar Adl/Flickr

 

 




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