mercoledì 10 febbraio 2016 - angelo umana

Il figlio di Saul, di László Nemes

Qualcuno ha scritto che dopo un film come questo di László Nemes nessuno più ne girerà altri sulla Shoah. E’ un’esagerazione, altri film escono sull’argomento, la testimonianza non cesserà, anche perché “Fin quando la tragedia non incontra qualcuno che la sappia raccontare essa scivola sugli abiti come acqua nel diluvio”: questo ha detto Marco Belpoliti, scrittore e critico letterario, docente di letteratura a Bergamo e massimo esperto su Primo Levi. Nemes l’ha raccontata specificamente dai locali della eliminazione (Vernichtung) delle persone, che poi diventano corpi da far bruciare e la cui cenere veniva buttata nei fiumi tedeschi (una lapide in un punto del Danubio ricorda che lì fu buttata la cenere di 30.000 corpi!).
 
Nel suo primo lungometraggio, premio speciale della Giuria a Cannes 2015 e “plurinominato” per vari concorsi, il regista 39enne immagina il lavoro che svolgevano dei Sonderkommando (comando speciale) ungheresi, prigionieri essi stessi del lager di Auschwitz nel ’44 e destinati alla morte quando nuovi lavoratori prendevano il loro posto: è proprio una fabbrica organizzata o meglio una macelleria che lavora dei “pezzi” (Stücke). La macchina da presa costantemente alle spalle di Saul o sul suo volto, morto vivente che con altri riceve i nuovi carichi di ebrei in arrivo, che vengono fatti spogliare, i vestiti raccolti frettolosamente e ripuliti di eventuali gioielli e documenti privati, vite annullate senza più identità ma solo numeri, corpi, “pezzi”. Si chiudono le porte ermetiche della camera a gas e il sonderkommando sente il trambusto mortale e disperato che si placa in fretta dietro quelle porte.


 
Solo un tratto passeggero di umanità sembra avere il viso di Saul, quando accoglie i nuovi prigionieri a cui viene promesso lavoro, cure mediche e sa che sono di lì a poco destinati alla morte, come egli stesso, nulla più da sperare. E’ un film di ordini urlati, corpi trascinati o aperti che scorrono inavvertiti accanto a Saul, pianti di bambini. Riconosce tra la nuova produzione di “pezzi” il cadavere di suo figlio e il suo unico scopo diventa la ricerca di un rabbino che reciti il Kaddish e la sepoltura di quel corpo da non lasciar bruciare come gli altri. Non siamo sicurissimi che il figlio sia proprio il suo, ma questa idea di dargli degna sepoltura pare un desiderio di redenzione rispetto alla bruttezza del luogo e del lavoro che è costretto a compiere. Per farlo tradisce i suoi compagni che preparavano la rivolta e la fuga (inverosimili) prima che un nuovo sonderkommando prendesse il loro posto (Hai tradito dei vivi per seppellire un morto?!).
 
Non c’è musica, non c’è un sorriso in questo film, in fondo è un documento sulla crudezza di quei posti in una visione particolare del regista, un “La vita è bella” molto più tragico e rude. Un’ombra di sorriso appare sul volto di Saul in un bosco tra gente che fugge, quando evita ad un ragazzo dell’età del figlio di essere bersaglio dei nazisti che sparano.




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