mercoledì 21 dicembre 2016 - Maria Francesca Carnea

Il divino immanente nella natura umana è guida etica per il politico

È per il cattivo timoniere che vediamo la nave perire. “Si pensi a una nave, il cui capitano è più grande e più forte di tutti i marinai, ma - pur non essendo cattivo - è di vista corta, un pò sordo e inesperto di cose nautiche. I membri della ciurma stanno a litigare fra loro, contendendosi il timone, pur essendo anch’essi inesperti di marineria; anzi, affermando che quest’arte non è insegnabile, fanno continue pressioni sul comandante per ottenere il timone. Se non riescono a ottenerlo con le preghiere, ammazzano o buttano fuori bordo i concorrenti, o drogano il capitano. E esaltano chi li aiuta in queste loro intraprese trattandolo come un esperto, anche perché, pur essendo privi di techne e di pratica, pensano che l’arte del pilota si acquisisca semplicemente prendendo il governo della nave. Il pilota competente, il quale sa che ci si deve preoccupare dell’anno e delle stagioni, del cielo e degli astri, viene trattato come un inutile chiacchierone con la testa fra le nuvole”. (Platone, La Repubblica, L. VI, 488a).

In questo quadro, la ciurma allude ai moralisti tradizionali, i retori e i sofisti, per i quali la politica si riduce all’arte di manipolare il popolo, qui rappresentato dal capitano, non cattivo, ma ignorante, sordo e miope. Nell’arte della navigazione antica, un comandante competente doveva osservare il cielo, preoccuparsi delle stagioni, doveva, cioè, guardare lontano, al di là della nave e delle sue relazioni interpersonali. Tali cose, però, risultano apparentemente inutili, per chi pensa che ciò che conta sia il mondo ristretto dell’imbarcazione, ma assolutamente essenziali, per chi sa che la nave deve navigare in un ambiente molto più ampio e incerto. La società umana è contenuta in un mondo esteso, che ne determina le condizioni e i limiti, e che sfugge al controllo della retorica. Per analogia, la nave viene ad indicare come la politica può essere veramente oggetto di scienza solo se supera il provincialismo e gli egoismi.

Il dovere politico non riesce ad agire sulla volontà individuale senza che contenga un’adeguata forza motivazionale, se non vi fosse cioè da parte del soggetto agente un piacere, una dedizione, specificamente morale: il sentimento della dignità e del valore dell’etico, del suo potere di innalzare l’esistenza al di sopra del solo mero esserci naturale ed empirico. Con ciò l’adesione del volere al dovere, introduce il riferimento ad un bene o fine ultimo oggettivo, che conferisce senso e valore all’esistenza politica, e indirizza l’agire dell’uomo verso una meta unitaria. Si manifesta così il concetto del sommo bene, che non può consistere soltanto nel conseguimento di un valore ideale della personalità, ma nella ordinata e sana conformazione della vita esteriore, non circoscritta alla vita individuale, piuttosto estesa alla realtà storico-socio-culturale in cui la persona vive e si realizza: la famiglia, lo Stato, la società, il rispetto della natura, l’economia, la scienza.

Rimane, dunque, tuttora valido il progetto di etica cristiana in cui si verifica una piena compenetrazione di spirito religioso e spirito morale: un’assonanza che non comporta un’assunzione quieta dell’esistente, piuttosto un attivo e trasfigurante esistere, poiché il suo obiettivo consiste nel fare in modo che l’agire umano sia al servizio dell’essere, dei fini di civiltà e di edificazione umana. Ecco che il divino immanente nella natura umana, è guida etica per il politico savio che, posto al timone della nave comune, gestirà con prudenza una sapiente navigazione in acque di lungimiranza e sano costrutto. La ragione penetra di sfumature la struttura naturale, umanizzandola.

 




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