giovedì 30 giugno 2016 - UAAR - A ragion veduta

Il coefficiente di laicità relativa

Detto così sembrerebbe quasi essere l’ennesimo tentativo di mutare il significato del sostantivo “laicità” accostandovi un aggettivo, operazione quasi sempre compiuta al ribasso da chi intende sminuirne il significato. Oppure potrebbe essere interpretata come una sorta di legittimazione proprio di quest’ultima pratica, nel senso che se esiste un relativismo della laicità allora dev’essere possibile interpretare questa in varie accezioni. In realtà non è nulla di tutto ciò. Quando si parla di laicità si fa riferimento a un principio talmente semplice e ben definito da non ammettere sfumature: è l’indipendenza dalla sfera religiosa di qualunque matrice essa sia, punto. L’espressione “laicità relativa” non è quindi riferita al principio in sé, che non può certo cambiare il suo significato, ma piuttosto all’ente che può essere, esso sì, più o meno laico relativamente alla cultura e alla parte del mondo in cui ci si trova.

Partendo da questo assunto ne consegue che le stesse battaglie per la laicità diventano relative, perché è chiaro che le rivendicazioni nelle società occidentali non sono nemmeno lontanamente proponibili, allo stato attuale, in quei contesti in cui il livello di laicità è molto più basso. Un esempio di battaglia laica nel mondo musulmano è quella attualmente in corso sul digiuno imposto nel Ramadan, riproposta da qualche tempo ogni dodici mesi lunari come lo stesso mese sacro. Non tutti i paesi islamici seguono il precetto coranico allo stesso modo, prova questa che perfino tra le comunità appartenenti a una stessa cultura religiosa possono esservi diversi livelli di laicità. Così si va dalla relativamente secolarizzata Tunisia, dove la rottura della tradizione risale perfino al padre della patria Bourghiba — uno spaccato del Ramadan tunisino lo si trova anche nel film di Nadia al Fani, Laïcitè Inch’Allah — a paesi molto più clericali in cui non osservare il digiuno si configura addirittura un illecito penale, come il Marocco dove è prevista la reclusione da uno a sei mesi.

Eppure quello che chiede il movimento dei “disertori del digiuno” non è certo l’abrogazione del precetto, ma più banalmente il diritto di non essere obbligati a seguirlo. Come scrive Maryam Namazie, portavoce delCouncil of Ex-Muslims of Britain, «essere musulmani non significa necessariamente che si voglia digiunare durante il Ramadan, così come non tutti i cristiani digiunano durante la Quaresima». Per l’appunto, l’idea di obbligare al digiuno quaresimale sarebbe semplicemente ridicola qui e ora per via della maggiore secolarizzazione in questa parte del mondo. Namazie elenca anche una serie di episodi di cronaca riguardanti provvedimenti e ripercussioni, anche molto violente, su chi ha osato contravvenire al digiuno rituale. Purtroppo sono in costante ascesa anche gli episodi di scherno e perfino di pestaggio per i musulmani, o ex tali, che non osservano il precetto nei paesi occidentali, il che porta a una ulteriore riflessione: per gli integralisti non può esistere nessun relativismo laico, può esistere solo l’assolutismo confessionale. Ne si tenga conto quando si pensa al multiculturalismo a compartimenti più o meno stagniquale alternativa alla laicità vera e propria.

Altre battaglie a rivendicazione variabile in funzione del coefficiente di laicità relativa sono quelle per i diritti e l’emancipazione delle donne. Mentre in occidente i fronti principali sono quelli dei diritti riproduttivi, dalla contraccezione all’aborto passando per la procreazione basata sul sostegno esterno (fecondazione eterologa e gestazione per altri), a cui si aggiungono i problemi di rappresentatività sociale e nel mondo del lavoro, altrove è lo stesso diritto a essere riconosciute quali esseri umani con pari dignità ad apparire quale chimera. Nelle regioni induiste la donna è poco più di una portatrice di dote nuziale e un oggetto sessuale di cui poter disporre a proprio piacimento, al punto che gli stupri fanno notizia solo in casi particolarmente assurdi. Non va affatto meglio nell’islam, dove a essere stuprate e paradossalmente arrestate sono perfino le turiste e dove la prima tappa di un riconoscimento dell’identità femminile passa dall’affrancamento dal velo.

Anche il concetto di offesa del sentimento religioso, in qualunque modo lo si voglia intendere, viene percepito in maniera completamente diversa da cultura a cultura e dunque anche la lotta per la libertà d’espressione parte da presupposti molto differenti. Laddove il potere politico e quello religioso sono nella migliore delle ipotesi complementari, e nella peggiore il primo è assoggettato al secondo, tutto può diventare blasfemo ed essere punito in maniera molto severa, talvolta estrema. Ne sono tragici esempi nazioni come il Bangladesh, dove i liberi pensatori vengono falcidiati con il machete, e l’Arabia Saudita con le sue prigioni piene di persone che si sono permesse anche solo di criticare pubblicamente l’islam. Una di queste, il poeta Ashraf Fayadh, sta scontando la sua condanna a otto anni e ottocento frustate, e nel frattempo una delle sue opere è stata recentemente letta dalla rappresentante dell’Iheu Elizabeth O’Caseyal Consiglio Onu sui Diritti Umani. La stessa omosessualità è considerata una perversione che offende l’islam, e come tale viene punita.

Per quanto riguarda la blasfemia il distacco guadagnato dai paesi secolarizzati è però un po’ minore che negli altri casi. Tutt’oggi le legislazioni di alcuni paesi, ivi incluso il nostro, annoverano il reato, spesso anche solo come illecito amministrativo, ma la cosa più grave è che comunque la blasfemia viene ancora percepita come diversa da qualunque altra forma di critica o di satira e perciò meritevole di sanzione. Come se non bastasse, anche in questo caso si fanno sentire gli effetti deleteri del multiculturalismo anglosassone, tant’è che mentre nelle università inglesi si afferma la “safe space policy”, quasi la metà dei cittadini del Regno Unito è favorevole a limitare la libertà d’espressione se in gioco c’è il rispetto verso una religione. A rappresentare in pieno l’assurdità del peccato-reato arrivano poi notizie emblematiche come l’ultima da Rocca Canavese: i fedeli protestano per un manifesto blasfemo, ma poi si scopre che pubblicizzava una festa da ballo nei locali della parrocchia e lo stesso parroco aveva dato il nulla osta per la sua affissione.

Massimo Maiurana




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