sabato 7 gennaio 2017 - Aldo Giannuli

Il Pd a un mese dal 4 dicembre

A un mese dal referendum del 4 dicembre non è inutile qualche riflessione sulla fase che si è aperta nel Pd e sulle sue prospettive.

Renzi resta segretario e non si capisce se ci sarà un congresso o no, se resterà segretario sino al momento di fare le liste o no ecc. Quello che è chiaro è che il renzismo è finito. Non voglio dire che il fiorentino non possa risorgere dalle sue ceneri ed avere una seconda “primavera”, ma che, anche se fosse, questa seconda fase sarebbe cosa diversa e molto più piccola della prima.

E’ finita l’epoca in cui il Pd (e con lui Renzi) poteva pensare di gestire governi monocolore, magari con un aiutino della legge elettorale: il Pd del 40% è roba dell’altra era e, quando si guarda al 40% referendario come voto tutto al Pd, non ci crede neppure Renzi. Per la verità, anche il Partito della Nazione è una cosa da album dei ricordi.

C’è chi dice di una prossima fusione Berlusconi-Verdini-Alfano, per confluire con il Pd nel partito della Nazione, ma la cosa non ci sembra seria. In primo luogo Berlusconi non ci sta perché non rinuncerebbe mai ad una poltrona di prima fila e qui, bene che vada, potrebbe fare solo il comprimario. D’altra parte, se questo fosse il disegno, Berlusconi non starebbe insistendo sul proporzionale ma, al contrario, chiederebbe un sostanzioso premio di maggioranza. Poi è evidente che persino quei molluschi della sinistra Pd non potrebbero starci e sarebbe la scissione sulla sinistra, ma anche diversi di Fi preferirebbero Salvini e sarebbe la scissione sulla destra. Magari Verdini ed Alfano potrebbero starci, ma quanti voti porterebbero? Forse neppure il 2%. Infine bisognerebbe vedere che ne pensano gli elettori che, da un lato e dall’altro, potrebbero disertare in massa, magari per astenersi. Dunque il Partito della Nazione non esiste più come credibile proposta politica.

Di prospettive, oggi come oggi, il Pd renziano ne ha solo una: sopravvivere con un risultato intorno al 30%, bene che vada, per allearsi con Fi ed i centristi per fare un governo ”europeista”, nella speranza che la fiumana “populista” passi. Ma credo non che funzionerebbe neppure questa, anche perché sarebbe difficile contendere i consensi ai “populisti” facendo gli ultra europeisti, mentre la Ue pesta duro per far quadrare i conti.

Il Pd ancora non lo ha realizzato, ma è sulla via di un inevitabile tramonto: si è andato a schiantare contro il muro del 60%. Ed è un bene che ciò sia, perché il Pd, con la sua truffa di “partito di sinistra che fa una politica di destra”, con la boria aggressiva e proterva dei suoi militanti, con l’arroganza cinica dei suoi dirigenti, con il suo codazzo di servi, con il suo gretto provincialismo è solo un fattore di incanaglimento della lotta politica in questo paese e basti vedere le reazioni avute alla sconfitta.

Il migliore, va detto, è stato Renzi che ha riconosciuto la sconfitta, anche se non ponendosi il problema delle sue ragioni, ma attribuendo tutto ad un difetto di comunicazione del partito che “non ha saputo illustrare le ragioni del Si”. I suoi seguaci sono stati molto peggiori e, per la verità la base più ancora dei dirigenti: nessun dubbio di essere stati nel giusto, di aver perso per colpa degli altri.

Coltivano una visione per cui il Pd è la “sinistra saggia, moderata, lungimirante, unica capace di raccogliere consensi e vincere” che è fuori del Mondo, Sinistra? E sulla base di cosa? Della lontana discendenza dal Pci? E poi, moderata e saggia? Proprio non pare, visto l’oltranzismo con cui difende i suoi progetti. Ma, soprattutto, non è affatto vero che sia la “sinistra che vince” come dimostrano proprio ora i dati del referendum.

La base Pd ha preso una contingenza favorevole per un dato definitivo e non si rende conto della linea di tendenza: fra il 2007 (anno di fondazione) ed il 2013 il Pd è passato dai quasi 12 milioni di voti (2006 e confermati nel 2008, ma a spese degli alleati di sinistra) agli 8 milioni e 600 mila (con una perdita secca di 3 milioni e mezzo di voti). Ma, per gli effetti della distribuzione del voto ed in grazia di una legge elettorale incostituzionale, conquistava il 54% dei seggi alla Camera (primo colpo di fortuna). Poi, secondo colpo di fortuna, alle europee, il grande balzo in avanti del 40% dovuto allo squagliamento del centro (Monti, Udc, Fini) ed al rosicchiamento di qualche voto Sel. Un dato del tutto contingente, mai più ripetuto, ma che venne sbandierato come il nuovo livello elettorale del partito e, con questo, la conferma del destino di governo del partito. A nulla valsero le flessioni nelle amministrative del 2015 e 2016, che riportarono il partito sotto il 35%, ed a nulla valsero i ballottaggi quasi sempre persi dal Pd. Dirigenti e militanti del partito presero il tutto come momentanei incidenti di percorso di una tendenza di fondo.

Invertendo i termini della questione, presero il momentaneo successo del 2014 come la tendenza predominante e gli insuccessi come eccezioni momentanee mentre era esattamente il contrario. Conseguentemente a questo errore di prospettiva, coltivarono un progetto tutto autoreferenziale, di unico partito di governo, sino a tentare, temerariamente, di mettere mano alla Costituzione contro tutti gli altri. E’ questa la prima ragione della sconfitta: il metodo della riforma la votava necessariamente alla sconfitta che, infatti, c’è stata la sconfitta e di proporzioni notevoli.

Ed ora il Pd si ritrova senza alleati, isolato, in declino, con un leader semi invalidato e senza nessun ricambio. E’ una lunga agonia aggravata dagli errori culturali di sempre di cui la base è la prima vittima. Essa è convinta di avere una sorta di diritto naturale alla vittoria, in nome della propria “diversità morale” che la rende migliore degli altri, e chi non riconosce questa diversità e, dunque, nega la vittoria, lo fa per ragioni inconfessabili (quanti danni ha fatto Berlinguer con quell’infelice discorso sulla “diversità comunista”). Di qui l’incapacità di capire le ragioni di una sconfitta e la coazione a ripetere l’errore.

Ma siamo contenti di questo: l’incapacità di imparare dalle proprie sconfitte è premessa certa di sconfitte future e questo varrà ad abbreviare questa agonia che potrebbe dilungarsi per lungo tempo con danno per il Paese.




Lasciare un commento