sabato 1 ottobre 2016 - Leandro Malatesta

"Fuocoammare", la misericordia delle immagini

Ci sono date che non si possono e non si dovrebbero mai dimenticare.

Una di queste date è quella del 3 ottobre 2013 quando di fronte all'Isola dei Conigli, a poche miglia dal porto di Lampedusa persero la vita 366 migranti nel tentativo di inseguire il sogno di una vita migliore.

Di pochi giorni fa è invece la notizia che “Fuocoammare” sarà il rappresentante italiano per la corsa all'Oscar come miglior film straniero. Mettere in relazione queste due cose nel terzo anniversario di quella immane tragedia è esercizio naturale, anche se il film di Gianfranco Rosi non parla di quel fatto specifico.

La prima domanda che uno spettatore nell'approcciarsi a “Fuocoammare” potrebbe porsi è che cosa possa aggiungere un lavoro come questo rispetto ad un reportage giornalistico passato all'interno di un telegiornale degli ultimi anni o tranquillamente visibile in rete.

La risposta a questo interrogativo può sembrare semplice ma su di essa si gioca una buona parte del rapporto contemporaneo e futuro tra le immagini ed il cinema.

In una epoca dove il flusso di notizie è continuo ed aggiornato in presa diretta il ruolo “politico” dell'immagine diventa peculiare.

Infatti per la pellicola di Rosi si può utilizzare il termine “politico” anche e sopratutto per il modo in cui l'immagine acquista spessore e crea un fine "alto" senza il rischio di fraintendimenti nell'interpretazione.

L'elemento fondante che differenzia il racconto di “Fuocoammare” rispetto ad un qualsiasi servizio giornalistico è il tempo. Il regista stesso ha raccontato di come giunto sull'isola di Lampedusa egli trascorse molto tempo senza vedere nemmeno un migrante.

Ed ecco che così l'obiettivo della macchina da presa si sposta per “riempire” il tempo verso un qualcosa di “altro” che però è parte dello stesso racconto e che neanche volendo può scindersi da esso; il racconto così facendo lievita e la propria narrazione si trasforma in racconto collettivo nel senso più ampio ed inclusivo del termine dove Lampedusa ed i lampedusani divengono paradigma del mondo.

Quindi quasi per necessità il piccolo Samuele si trasforma in una sorta di Huckleberry Finn proiettato nell'oggi e noi spettatori veniamo catapultati in quel suo mondo di giocose avventure che lo condurranno verso il proprio viaggio iniziatico dove da quel momento in poi, alla guida di una piccola imbarcazione, per lui figlio dell'Isola e del mare niente sarà più come prima.

Come sarebbe dovuto essere ma invece non è stato per l'Europa a partire da quel tre ottobre 2013, perché troppe volte abbiamo detto “mai più” ma in fin dei conti è come se ci fosse sempre spazio per ripetere questa stanca litania ma non vi fosse mai il tempo per prendere coscienza di una nuova maturità.

Il senso delle immagini è quello di individuare istanti da catturare e che fanno sì che quelle storie non siano più solo le storie di quelle determinate persone ma diventino le storie di tutti e così Rosi entra nelle vite degli altri attraverso la voce dello speaker che dalla radio dell'isola riceve e dona attraverso l'etere dediche musicali che ci raccontano frammenti di umana speranza, sempre il regista segue con la discrezione di chi non vuol disturbare una anziana donna che nei piccoli momenti della propria esistenza giornaliera ci ricorda attraverso il lavoro della propria mano che ogni gesto anche il più piccolo ed ordinario per avere spessore deve essere fatto con tutta la cura di cui disponiamo.

I migranti, che come detto, per una parte del racconto non si vedono stanno lì a dirci con la loro non-presenza di quante e troppe volte le loro vite siano state accantonate dalle agende dei governi europei per mancanza di coraggio e lungimiranza e così si innalza con rara e fragorosa potenza il canto – preghiera di un ragazzo nigeriano che Rosi riesce a riprendere e che rimette alle nostre coscienze il peccato originale che ha costretto quel ragazzo a vedere morire i propri amici e compagni di viaggio.

L'occhio pigro che viene diagnosticato dal dottor Bartolo al piccolo Samuele non può non essere visto come l'occhio pigro della politica internazionale.

Proprio la figura del dottor Bartolo, medico condotto dell'isola è la figura cardine del racconto filmico perché le diverse esperienza “in prima linea” maturate nell'accoglienza dei migranti ma anche di chi effettua esami autoptici alle vittime restituite dal mare lo pongono più di nessun altro in contatto con la vita e la morte nella lotta eterna e drammatica che questi due elementi inscenano.

La scelta della RAI di trasmettere il film su RAI TRE la sera del tre ottobre 2016 è una scelta che appare appropriata e coraggiosa e che ricorda quale sia il ruolo del servizio pubblico.

Il Manzoni nei “Promessi Sposi” faceva pronunciare a Lucia Mondella queste parole “Dio perdona tante cose per un atto di misericordia!” ciò per dire che “Fuocoammare” non è un semplice lavoro di pietà fine a se stesso ma un vero e proprio atto misericordioso capace di donare dignità a vite troppe volte dimenticate.

Rosi svolge un compito in soccorso del cinema tutto, ricordandoci di come il nostro sguardo sul mondo non debba più essere una fugace e distratta occhiata alle immagini che ci scorrono davanti ma che esso cresca fino a diventare sguardo di misericordiosa comprensione.




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