sabato 9 novembre 2013 - Osvaldo Duilio Rossi

Essere un altro #1

Immagina che uno sconosciuto, entrato in casa tua, dimostri di poter contestare la tua identità.

Chi è? Cosa vuole ottenere? Come riesce a manipolare le informazioni sulla tua vita? Ma soprattutto: tu chi sei?

Un romanzo a puntate sulla fragilità dell'identità nell'era di Internet.

Ho sempre odiato gli ebrei. Credo perché nel corso degli anni è diventato inaccettabile odiarli. Gli ebrei sono stati perseguitati per secoli e così oggi non è giusto e non è consentito odiarli. Perciò li odio: perché la loro esistenza mi costringe a rinunciare alla libertà di odiare. Perciò odio gli ebrei e la società che li ha segregati in questa riserva naturale, come bestie rare, che li ha rinchiusi in un’oasi protetta, isolandoli dalla libertà altrui. Razzismo al contrario.

Odio la relazione ipocrita tra società e ebrei. E odio chi li ha perseguitati perché, per fare ammenda, mi obbliga a non odiarli; io che non ho mai avuto niente contro gli ebrei sono costretto a controllarmi, a reprimermi. Quindi credo di non odiare gli ebrei. Ma forse odio la società che mi impone questa schizofrenia, per cui dovrei sentirmi in colpa per i miei sentimenti, che invece si esasperano. E gli ebrei, che sanno di essere odiati per questo motivo, non possono lamentarsi perché vengono protetti dall’odio.

«La tolleranza è una forma di condanna più raffinata» significa qualcosa del genere.

Invece di ridere mi fa incazzare! Infatti, quando andai a studiare inglese a Londra – ero appena adolescente e quelli più grandi mi avevano detto che, se andavi a Londra per studiare l’inglese, poi finiva che incontravi un sacco di italiani e parlavi solo italiano e non imparavi l’inglese, ma io invece capitai in una casa fuori città, senza locali in cui andare e nessuno da incontrare e così mi sono annoiato a morte e non mi sono mai sconvolto con gli acidi in discoteca, come hanno fatto gli altri, ma ho imparato l’inglese muy bien – capii una cosa importante della vita: la razza, l’etnia, la stirpe, il colore… non contano niente perché le persone sono uguali ovunque tu vada, sono sempre le stesse, con gli stessi problemi e gli stessi limiti e le stesse debolezze e virtù – quando hanno qualche virtù – e se sono deboli, forti, meritevoli, caritatevoli, uomini o caporali, non dipende dalla razza, ma da quello che hanno imparato, fatto, pensato, perso, preso e dato nella vita. I ricchi – bianchi americani o negri del Gabon, musulmani o buddhisti – fanno schifo tutti allo stesso modo, hanno tutti gli stessi identici desideri e ambizioni. Così come i gentiluomini restano tali in una fumeria di Algeri, al circolo del golf di Port Stanley o in una fossa comune in Dalmazia.

L’ho capito l’anno che andai a studiare inglese a Londra, sei mesi ospite del signor e della signora Schneider – che, poi, ospite si fa per dire, visto che i miei gli pagavano l’affitto, e comunque io gli regalavo sempre qualche salame, formaggio o vasetto di pomodori che mi arrivava dall’Italia per le feste, anche se poi li mangiavamo insieme –, emigrati da Germania anno zero per farsi una nuova vita dopo la guerra, immigrati a casa dei vincitori. Tedeschi, mi dissi io: glielo voglio proprio chiedere cosa ne pensano degli ebrei. Ma finì che me lo chiesero loro e io non seppi rispondere bene, come invece saprei fare oggi, così gli ripetei le solite cose sulla taccagneria, sui soldi, sul profitto ad ogni costo, niente onore, sul potere sionista e sulla falsità e che gli ebrei pensavano sempre solo a se stessi invece che al prossimo, a meno che il prossimo non fosse ebreo. E il signor Schneider mi chiese quanti ebrei avessi conosciuto in vita mia per dire quelle cose. «Che c’entra quanti ebrei ho conosciuto?» pensai, sono cose risapute, le dicono tutti, c’è pure la barzelletta di Aronne sul letto di morte che chiama la moglie, le figlie, i nipoti… e tutti sono lì per vegliarlo perché è sempre stato buono con tutti, e lui: «Sì, ma al negozio chi ci sta?» È risaputo che sono fatti così gli ebrei. Che domanda era quella del signor Schneider? Non capivo.

A questo punto, invece, dovrebbe essere ovvio che i signori Schneider fossero ebrei scappati per evitare la persecuzione. Io invece lo capii soltanto il giorno che me ne andai da Londra per tornare in Italia, quando, uscendo da casa loro, notai per la prima volta, nell’andito che avevo attraversato almeno duecento volte, un candelabro a sei o sette bracci. Mancava solo la stella di Davide, che pure doveva esserci, da qualche parte in cucina, se non sbaglio. In tutti quei mesi mi avevano sfamato a colazione, pranzo (sporadicamente) e cena senza avvelenarmi! «Signor Schneider…» cercai di dirgli alla stazione, mentre salivo sul treno per Heathrow, ma per l’imbarazzo non trovavo le parole con cui scusarmi. Non sapevo che dire e avrei voluto evitare di peggiorare la situazione. Allora mi abbracciarono tutti e due, lui e lei, e, mentre mi stringeva la mano, il signor Schneider mi disse fiero: «Marco, you are a gentleman».

Ecco, se fossero stati russi o veri tedeschi, non dubito che mi avrebbero servito piccole dosi di arsenico in ogni pietanza, per intossicarmi nel lungo periodo e farmi schiattare quando fossi tornato a casa. Ma la razza e l’etnia non c’entrano niente. Loro non mi avvelenarono perché avevano capito da subito che io ero un gentiluomo, che non ero ipocrita e che dicevo pane al pane e vino al vino… anche se questo non può essere vero perché io mica lo sapevo che loro erano ebrei; perciò non lo avevano capito, ma, sapendo di essere ebrei e credendo che anch’io lo sapessi, pensavano di avere capito che io fossi un gentiluomo; come nella storiella di Aronne che incontra Michele e gli chiede dove stia andando, e Michele risponde che va a Varsavia; allora Aronne impreca: «Tu menti Michele! Dici che vai a Varsavia per farmi credere che vai a Lodz, invece vai veramente a Varsavia. Tu menti Michele!»

Pensavano che io fossi un gentiluomo e si comportarono sempre come conviene comportarsi con un gentiluomo, cioè si comportarono a loro volta da gentiluomini, benché la signora Schneider fosse una donna.

Così imparai che gli ebrei possono essere ammirevoli, anche se ancora non avevo capito che li odiavo per colpa degli altri, della società.
E, allora, parliamo di questa dannata società.




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