mercoledì 1 febbraio 2017 - Antonio Moscato

Esorcizzare la rivoluzione russa?

Per il centenario della Grande Guerra la pubblicazione smisurata di libri ripescati nel passato o tradotti da altri paesi ha finito per saturare un “mercato” con prodotti non sempre utili per capire perché c’era stata, anche se tutti quelli che l’avevano scatenata assicuravano di non volerla. 

Un rischio analogo di incomprensione si corre per il centenario della rivoluzione russa, che pure appena pochi anni fa non sembrava affatto al centro dell’attenzione pubblica. Il “Corriere della Sera”, che ha cominciato domenica a dedicare all’argomento un Processo a Lenin che occupa ben quattro pagine del quotidiano, ha segnalato una bibliografia già consistente, con qualche novità, qualche ristampa interessante come un pamphlet di Victor Serge, Da Lenin a Stalin, ma anche il rilancio del Vangelo socialista di Bettino Craxi, o del Rapporto segreto di Chrusciov (che contrariamente a quel che pensano i nostalgici del “socialismo reale” era una denuncia di Stalin fatta in perfetto stile staliniano, attribuendo al vozd tutte le colpe, invece di indagare sul perché si era consolidato un regime burocratico). Vedremo.

Intanto il titolo con cui viene presentato il dibattito tra Sergio Romano e Luciano Canfora, Processo a Lenin (Putin assolto) non fa sperare bene. Ma anche i contenuti sono deludenti, dato che entrambe gli storici non si sono mai interessati realmente alla storia della rivoluzione russa e a maggior ragione agli scritti di Lenin.

Sergio Romano, dato che è stato ambasciatore a Mosca tra il 1985 e il 1989, in realtà conosce bene l’Unione sovietica che in quegli anni precipitava verso l’esplosione, ma era un paese che non aveva più niente a che fare con Lenin, e in cui solo piccoli gruppi estremamente minoritari facevano i conti con quel che aveva detto realmente il leader bolscevico, sgombrandolo dalle macerie del “marxismo-leninismo” staliniano codificato da più di sessant’anni. Così Romano può fraintendere totalmente la logica della proposta che ha portato i bolscevichi da piccolo gruppo poco conosciuto alla conquista della maggioranza nei soviet e quindi al potere. Per Romano infatti “tutto cambia quando [Lenin] scende dal treno alla stazione di Finlandia” con le idee molto chiare: “per completare la rivoluzione bisogna uscire subito dalla guerra”, afferma.

È esattamente il contrario della logica di Lenin, che era: solo la rivoluzione può fermare la guerra. Sergio Romano è tecnicamente uno storico rigoroso, ma qui prevale la sua mentalità e la sua ideologia di borghese conservatore, che non capisce neppure quella che rappresentava la guerra per milioni di proletari. La priorità assoluta, fin da prima del 1914, per i bolscevichi, era fermare la guerra che si preparava da anni da parte di tutte le potenze imperialiste. E ci sono riusciti, anche se rimasti isolati per il tradimento delle socialdemocrazie. È questo che spiega il successo della rivoluzione nell’Ottobre e il suo irradiarsi in Europa e nel mondo, compresa l’Asia.

La scarsa conoscenza dei turbolenti dibattiti dei primi mesi del 1917 porta Sergio Romano ad avallare sostanzialmente la tesi calunniosa del “debito con la Germania” che Lenin avrebbe pagato subito. L’idea di chiedere un transito attraverso i paesi in guerra era stata tra l’altro del menscevico Martov (che poi rinviò il suo viaggio) e di alcuni dirigenti socialisti svizzeri, e si doveva a due fattori: da un lato la constatazione – angosciante per Lenin - che chi aveva in mano la Pravda a Pietrogrado (cioè in primo luogo Kamenev e Stalin) seguiva una linea opportunistica di appoggio al governo provvisorio borghese (e censurava le sue Lettere da lontano), dall’altro la sua convinzione non infondata che la caduta dell’impero zarista poteva provocare quella dei due imperi centrali. Ma qui Romano ha un attenuante, per ragioni varie: la censura staliniana consolidata nel corso di molti decenni su quei conflitti interni, e soprattutto il silenzio di stalinisti e socialdemocratici sulla straordinaria rivoluzione tedesca che maturava già nel 1917 e che esplose nel novembre 1918, subito soffocata dalla controrivoluzione preventiva che eliminò a freddo Rosa Luxemburg, Karl Liebknecht e tanti altri dei più lucidi dirigenti spartachisti.

Tuttavia la ricostruzione di Romano del presunto “pagamento del debito” è indegna di uno storico serio: “prima [Lenin] sabota lo sforzo bellico e poi, una volta al potere, accetta un trattato di pace umiliante per la Russia”. Anche qui, invece di partire dal drammatico dibattito (pubblico!) dei bolscevichi sul trattato di Brest-Litovsk, e di capire che Lenin era sicuro che i due imperi centrali avevano i mesi contati, Sergio Romano accetta le mascalzonate giornalistiche basate su false testimonianze di avventurieri e trafficanti vari lanciate dal governo Kerensky, e ignora che i socialisti rivoluzionari non furono vittime innocenti perseguitate per intolleranza, ma perché reagirono alla pace uscendo dal governo, uccidendo l’ambasciatore tedesco e diversi dirigenti bolscevichi, e ferendo gravemente lo stesso Lenin.

Capisco bene che Romano, appunto perché è un conservatore, è certo che i meriti di Lenin siano inferiori a quelli di Stalin, “vero creatore dell’URSS”. Su questo ha gioco facile, perché il suo presunto oppositore, Canfora, dopo molte inutili divagazioni in cui si appella alla Tecnica del colpo di Stato” di Malaparte, chiama in ballo Robespierre e Mazzini, e avalla perfino un indecente accostamento di Lenin a Mussolini, conclude che “non c’è dubbio a mio avviso che Stalin sia l’autentico erede di Lenin”. Bontà sua, concede poi che lo dice “con tutto il rispetto per la personalità e la cultura del suo rivale Trotsky”. Un omaggio avvelenato, perché è rivolto soprattutto alla cultura dell’intellettuale Trotskij, ridotto banalmente da principale protagonista e stretto collaboratore di Lenin negli anni tremendi della guerra civile a semplice “rivale” di Stalin.

Ma Canfora continua per tutta la durata del suo intervento a tacere sulle pesanti inesattezze di Romano (ad esempio nel presentare le critiche della Luxemburg) e ad attribuire a Lenin quel che gli attribuisce la destra russa: “il massacro della famiglia reale russa e (…) una lotta frontale contro la religione”. Mentre un minimo di conoscenza degli scritti di Lenin permetterebbe di sapere che al contrario raccomandava di valorizzare negli organi sovietici proprio i contadini credenti.[i] Quanto all’esecuzione dello zar con tutta la famiglia, una minima conoscenza delle leggi di una rivoluzione, d’altra parte, permetterebbe di capire che durante una terribile guerra civile sarebbe stato pericolosissimo consentire che uno dei tanti eserciti “bianchi”, in lotta tra loro oltre che contro il fragile potere sovietico, si impossessasse di qualche membro della famiglia imperiale per usarlo come bandiera unificante. E che non occorreva l’ordine del capo del governo per decidere in proposito. Ma la guerra civile, che pure è stata un fattore determinante - anche se non previsto e certo non desiderato - nella militarizzazione e nell’involuzione della rivoluzione, è la grande assente nelle quattro pagine del “Corriere della sera”.

Come è assente la comprensione della insostenibilità della guerra non solo per i contadini-soldati e le loro famiglie, ma per tutti gli operai e le operaie (protagoniste di molti momenti chiave del 1917) costretti a lavorare spesso 12 ore per sostenere una guerra che non avevano certo voluto. E manca, non solo a Romano e Canfora, ma a gran parte della storiografia borghese, la consapevolezza che le radici della rivoluzione non erano nel cervello di Lenin, ma nelle profonde contraddizioni della società russa, manifestatesi già nell’esplosione del 1905, e che la repressione zarista si era illusa di soffocare per sempre.

(a.m.)

 

Postilla

La mia severità nei confronti dei due storici non è legata alle loro convinzioni, ma al fatto che cadono nell’unico peccato veramente imperdonabile per uno studioso serio: l’anacronismo. Sergio Romano confonde la duttilità di Lenin col cinismo di Stalin e degli staliniani, attribuendo al primo la responsabilità almeno indiretta del vergognoso “Appello ai fratelli in camicia nera” del 1936, che era casomai un sottoprodotto tardivo della teoria staliniana del “socialfascismo, da cui discendeva la pratica delle alleanze con i nazisti contro i socialdemocratici, ad esempio nel referendum contro il governo prussiano. Evidentemente ignora tutti gli sforzi compiuti da Lenin insieme a Trotskij dal II Congresso dell’IC in poi per proporre ai comunisti inesperti e settari il Fronte Unico del proletariato, come ignora lo scritto sull’Estremismo, malattia infantile del comunismo. Luciano Canfora poi banalizza l’atteggiamento di Lenin verso la socialdemocrazia durante la Grande Guerra attribuendogli l’idea che la rivoluzione sia possibile perché la socialdemocrazia sarebbe “perdente”, e basando su questo l’impossibile associazione della posizione di Lenin con il “Terzo periodo” staliniano dell’Internazionale e la mostruosità del “socialfascismo”. E Canfora tira per la giacca anche il povero Gramsci, che a Mosca, nell’agosto 1922, “paragona i fascisti agli SR russi, il che equivale a riconoscere, pur disapprovandola, la vocazione rivoluzionaria di Mussolini”. Qui non c’è solo anacronismo, c’è ignoranza pura e semplice. I SR (socialisti rivoluzionari) russi non solo nel 1922, ma già nel 1917, non erano affatto “rivoluzionari” se non di nome, ma la base principale del governo provvisorio borghese di Kerensky, che non aveva esitato ad appoggiarsi sul generale golpista Kornilov. (a.m.)

 

 

[i] Per capire l’infondatezza dell’accusa a Lenin di essere un persecutore della religione sono interessanti le lettere con cui egli sottoponeva all’attenzione dei collaboratori la figura di un contadino che aveva avuto modo di incontrare, Ivan Afanasievic Cekunov, che “simpatizza con i comunisti, ma non entra nel partito perché va in chiesa, è cristiano”. Quello che conta è che “migliora l’azienda” e nel suo distretto “con l’aiuto degli operai, è riuscito a ottenere la sostituzione di un cattivo potere sovietico con uno buono”. Soprattutto dice la verità: “i contadini hanno perso la fiducia nel potere sovietico”. Lenin ne propone la fucilazione? Niente affatto, ed anzi conclude che “è a gente simile che dobbiamo aggrapparci con tutte le forze per ristabilire la fiducia delle masse contadine”. Lenin fa molte proposte di inserimento di Cekunov in apposite strutture del potere sovietico, e raccomanda che in ciascuna zona sarebbe meglio trovarne tre, con le stesse caratteristiche: “vecchi”, e soprattutto “senza partito e cristiani”. ( Lenin, Opere, v. 45, Editori riuniti, Roma, 1970, pp.59-60).




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