venerdì 15 aprile 2016 - Gianleonardo Latini

Egitto e caso Regeni: la polveriera egiziana

Il governo autoritario dell’Egitto, nel fare il lavoro sporco contro il terrorismo, tiene al sicuro parte del Mediterraneo e sino a quando Giulio Regeni non è entrato nelle statistiche delle vittime del governo egiziano, l’Italia e l’Occidente non faceva molto caso all’interpretazione egiziana dei Diritti civili e il suo prendersi delle “libertà” anche con i suoi pacifici oppositori.

Una cartina tornasole può anche essere l’indifferenza di come è stata trattata la scomparsa in Italia del giovane egiziano Moawad Heikal rispetto alla tortura e all’assassinio di Giulio Regeni in Egitto. Il potere dei media che hanno nel guidare l’attenzione dell’opinione pubblica e di risvegliare l'orgoglio nazionale sul rispetto dei Diritti umani.

Il primo è scomparso forse volontariamente e comunque non vi sono prove di un reato, mentre il ricercatore italiano è stato torturato prima di essere ucciso ed è bastato un battito di ciglia, nonostante i mal congegnati tentativi di depistaggio, per individuare i responsabili negli organi più o meno occulti di sicurezza egiziani, come quello del ministro dell’Interno, la temuta State Security (SS) guidata dal generale Khaled Shalaby, soprannominato “il macellaio sadico”, già incriminato per la tortura e la morte di Farid Shawki Abdel.

Quello dei Diritti umani è un jolly che l’Occidente si gioca secondo le situazioni e le convenienze ed è esaustivo il comportamento del governo italiano nei confronti di paesi come l’Arabia saudita e l’Iran, senza dimenticare che nell’ordinamento giuridico italiano non è contemplato il reato di tortura, nonostante l’Italia abbia ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984.

La madre di Giulio, nella conferenza stampa che ha tenuto a fine marzo, ha paragonato quello che ha subito il figlio a un “trattamento nazifascista” solo perché studiava il ruolo del sindacato nella società egiziana, l'emarginazione e i possibili sviluppi antidemocratici del paese, ribadendo che non è un caso isolato come dicono gli egiziani e come aveva dichiarato ipocritamente il ministro della Sicurezza Magdy Abd El Ghaffar per il quale il caso del ricercatore italiano viene trattato "come fosse un egiziano", quando essere cittadino in Egitto non offre affatto garanzie civili. Qualche settimana dopo dalle dichiarazioni del ministro è la volta delle accuse rivolte da Al Sisi verso i social media impegnati a screditare il buon nome dell’Egitto, affermando che i servizi di sicurezza non centrano niente nell’assassinio di Regeni, ma è opera di gente malvagia.

È comprensibile che una madre si domandi “perché tutto il male del mondo si sia riversato su di lui”, ma è una visione molto parziale del Mondo quando su intere comunità si riversa la furia distruttiva degli operatori delle sofferenze in scala industriale.

Il caso Regeni ha suscitato un interesse internazionale, forse per il ruolo del ricercatore a Cambridge, ma anche in Egitto, tanto da fare uscire dall’ombra una delle tante madri di “scomparsi” egiziani, con una toccante lettera alla madre di Giulio per esprimere ammirazione per la sua forza nel chiedere verità e giustizia, ma anche invidia per aver potuto rivedere almeno il cadavere del figlio.

La madre di Amr Ibrahim Metwalli, del quale non ha notizie dal 2013, nella lettera manifesta anche la speranza che anche nel suo Paese i media possano informare sulle centinaia di scomparsi, come i due attivisti ritrovati morti nello stesso giorno della sparizione di Giulio.

Secondo El Nadeem Center un gruppo per i diritti umani con sede al Cairo, nel 2015 ci sono stati 464 casi documentati di rapimenti, almeno 676 casi di tortura e quasi 500 detenuti morti. Sono già 88 casi di tortura, di cui 8 con esito mortale, nei primi due mesi del 2016.

Arrivare a far chiarezza sulla fine di Giulio, superando la collaudata sceneggiatura di comodo – degli scontri fra bande criminali – usata per la sparizione di tutti quegli egiziani ignorati dall’Occidente, potrebbe essere l’occasione per coniugare business e Diritti umani in un paese prezioso per tenere “sotto controllo” un’area politicamente esplosiva.

Forse è eccessivo sperare di arrivare ad una verità, in Italia ci sono stragi e casi di abuso della Polizia che da decenni non hanno colpevoli, o affermare che il caso di Regeni possa aiutare a comprendere la società egiziana e gli egiziani nella loro richiesta di giustizia.

Sicuramente a questo scopo potranno essere utile i vari appelli degli organi d’informazione come il New York Times e il Washington Post nel chiedere all’amministrazione statunitense di rivedere le relazioni con l'Egitto per non premiare chi tortura.

Un appello che verrà rimandato probabilmente al mittente, nonostante la mobilitazione internazionale, perché l’Egitto è importante per l’Occidente nello scacchiere Medio orientale, non solo per il ruolo di contrasto al terrorismo, ma anche al controllo del traffico di persone.

In Egitto ci sono milioni di profughi non solo provenienti dalla Siria e dall’Iraq, ma anche dall’Afghanistan, dalla Libia e da tutta l’Africa e nonostante non sia un paese ricco come quelli europei che chiudono egoisticamente le porte, riesce ad accoglierli in situazioni precarie e con poco, in un paese con un'economia messa a dura prova dagli attentati che hanno messo in crisi il turismo.

L’Europa dovrebbe prendere in considerazione che, se l’Egitto “esplodesse”, non saranno solo alcune centinaia di persone pronte ad affrontare, dopo il deserto e i campi minati, il Mediterraneo, oltre al fatto di svolgere “gratuitamente” il ruolo per quale la Ue elargisce miliardi di euro alla Turchia.

Lo scrittore egiziano Alaa Al-Aswany teme, nell’intervista di Francesca Paci per La Stampa (31/03/2016), che a forza di depistaggi nel caso Regeni, come in altre simili situazioni, il regime non riesca più a distinguere la realtà dalle menzogne e le continue versioni possano rappresentare un segno di debolezza del sistema o «addirittura il colpo di coda di un governo a cui «neppure gli egiziani meno sofisticati credono più» perché neanche sotto Mubarak la repressione era così dura.

In Egitto la libertà d’espressione non è presa in considerazione, le riflessioni su Abramo e il Corano vengono punite da uno stato laico al pari di una teocrazia, ma ciò nonostante il regime di Al Sisi rappresenta per l’Europa come per gli Stati Uniti un’area di decantazione dei malumori e per questo si considera quella egiziana una democrazia “in via di ripristino”, un cammino tortuoso che va a confliggere con l’ottimismo di Al-Aswany nell’arrivare ad una verità sul caso Regeni e sul trionfo delle libertà che gli egiziani potrebbero barattare con la voglia di sicurezza e di pane.

Il vertice romano tra inquirenti italiani e egiziani è fallito per la mancanza di dati sul traffico telefoniche e dei video della metropolitana.

La nebbia alzata dagli investigatori del Cairo non si è diradata e il governo italiano decide di richiamare il suo ambasciatore. Non è una rottura ma un gesto simbolicamente fermo che non compromette gli scambi economici, ma potrebbe portare al congelamento di quelli culturali e turistici.

Ma per quanto potrà proseguire l’atteggiamento fermo nel chiedere risposte alle domande che il caso Regeni ha suscitato, quando nel Sinai l’Isis e i suoi accoliti continuano con gli attentati?

Quali possibilità potrà mai avere l’Italia di vincere il braccio di ferro con l’Egitto se le parole di sostegno della Ue non si trasformeranno in fatti? Il governo egiziano può contare negli aiuti economici dell’Arabia saudita, suggellati da 17 accordi di investimento, di circa 1,5 miliardi di euro, oltre a riproporre il progetto di costruire un ponte per unire le due sponde del Mar Rosso. Al Sisi ricambia la “generosità” saudita donando due isolotti al re Salman, durante la recente visita al Cairo, causando malumori tra gli egiziani.

Il regime di Al Sisi deve riconoscenza, sfiorando la sudditanza, al magnanimo impegno finanziario dagli Stati del Golfo. Un finanziamento che nel 2013 è stato utile nel sostituire cuore e nella mente degli egiziani il presidente espressione dei Fratelli mussulmani, ma eletto dagli egiziani, perché sgradito alla casa regnate saudita.

Instaurare un potere militare e laico, sovvertendo i risultati elettorali, con i favori dei custodi dei luoghi santi dell’Islam, per disperdere un’organizzazione capace di minare il potere saudita.

È probabile che l’Occidente, dopo aver visto con favore la presa del potere di Al Sisi, ora pensi ai Fratelli mussulmani come il migliore degli antidoti alla deriva jihadista, piuttosto che il metodo repressivo del regime egiziano e il caso Giulio Regeni potrebbe diventare un’occasione per sfidare il Potere, come è accaduto con l’ambulante Mohamed Bouazizi nella Tunisia di Ben Alì e con il blogger Khaled Said nell’Egitto di Mubarak, stando agli oltre 13milioni di risultati in arabo, in italiano non arrivano ai 500mila, che si hanno digitando su Google il nome del ricercatore italiano.

Comunque è consigliabile, prima di spingere per nuovi cambiamenti, aver pronto un piano B per portare la Libia fuori dai conflitti tribali e settari, senza milizie e signori della guerra che a secondo del vento cavalcano il jihadismo o la laicità della società, oltre ad evitare un nuovo esodo dalle sponde libiche.

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