venerdì 2 dicembre 2016 - Fabio Della Pergola

Dove va l’ebraismo americano?

Degli ebrei americani sappiamo alcune cose interessanti: ad esempio che sono solo il 2% della popolazione a stelle e strisce (6 milioni e mezzo di persone su 317 circa), che sono quelli che - pur riconoscendosi in una tradizione monoteistica - più di altri affermano di non credere in un Dio (il 17%, contro il 2% di cattolici e protestanti e l’1% di musulmani e cristiano-ortodossi). Tantomeno credono all’inferno (70%). In percentuali massicce (62%) non studiano le Sacre Scritture - che non credono essere “parola di Dio” per il 55% - e non derivano il loro senso etico dai dettami religiosi (solo il 17% lo fa). Laicamente sono più favorevoli di altri a considerare legittimo l’aborto (83%) o l’estensione dei diritti matrimoniali alle coppie dello stesso sesso (77%).

Conseguentemente con tutto ciò dichiarano di essere per la maggior parte più vicini al Partito Democratico (64%), che a quello Repubblicano (26%). Si sentono più liberali (43%) che moderati (33%) o conservatori (21%). In altri termini sono stati storicamente più di “sinistra” che di “destra”. Inutile ricordare che entrambe le figure della sinistra radicale, Bernie Sanders e Jill Stein, hanno origini ebraiche.

Nell'ultima tornata elettorale non sembra che ci siano segni di una inversione di tendenza (Clinton 71% - Trump 24% agli exit poll).

Poi esiste anche un’altra storia.

La storia di Andrew Breitbart, figlio adottivo di una coppia di ebrei americani, cresciuto come ebreo, studente di scuole ebraiche e di sentimenti orgogliosamente ebraici, benché non molto osservante. E, come da tradizione assodata, di simpatie democratiche.

Ma nel 1991 fu colto da improvvisa illuminazione destrorsa che lo portò a simpatizzare per Ronald Reagan. Non un’eccezione nell’ambiente dal momento che l’attore cow-boy è stato l’esponente di destra che ha raccolto i maggiori consensi nella comunità ebraica tra tutti i candidati repubblicani dell'ultimo secolo, raggiungendo quasi il 40% dei voti contro il democratico Carter ridotto ad uno striminzito 45% (fra le grandi debacle repubblicane in ambito jewish va ricordato invece il giovane Bush all’11% o il battagliero Barry Goldwater che raggiunse a malapena il 10% nonostante avesse origini ebraiche anche lui).

La vicenda di Andrew Breitbart proseguì dopo la folgorazione repubblicana nel campo dei media, soprattutto come assistente di un altro american jew, Matt Drudge, al Drudge Report, un sito di gossip senza remore, scritto e lanciato nel 1995 da un appartamentino di Hollywood come semplice newsletter via e-mail, diventato poi famoso nel '98 per le prime rivelazioni sull’affaire Clinton-Lewinsky (ma anche per aver infettato di virus i computer di molti media nazionali).

Fra bufale, ritrattate o no (l’ultima relativa ad un falso figlio illegittimo di Bill Clinton già smascherata nel 1999, ma rilanciata di nuovo nel 2016 in piena campagna elettorale della moglie Hillary), pettegolezzi di dubbio gusto, anteprime di vario tipo e un indubbio successo (fino a 3 milioni di contatti al giorno e l'inserimento di Matt nella lista delle 100 personalità - oltre che in quella dei 50 gay - più influenti al mondo) The Drudge Report si è caratterizzato per essere uno di quei luoghi-spazzatura senza peli sulla lingua (ma molti sullo stomaco) della destra becera così utili al populismo di Donald Trump.

Nel frattempo Andrew Breitbart, che Drudge aveva presentato ad Arianna Huffington (a quei tempi ancora repubblicana), partecipò alla fondazione dell’Huffington Post  e lanciò nel 2007 un sito simile al Drudge Report, il Breitbart News, pensato durante un viaggio in Israele con l’intento, fra le altre cose, di implementare in America una politica di sostegno specifico alla destra israeliana di Bibi Netanyahu (che è altra cosa dall'AIPAC, l'organizzata lobby filo-israeliana che agisce già da un sessantennio in modo bipartisan).

Detto fra parentesi, che la difesa di Israele sia più garantita da un Trump che da una Clinton non sta nei fatti, ma solo nella mente di Netanyahu (che ha una risicatissima maggioranza di governo) e di chi pensa che estendere gli insediamenti nella West Bank non ostacoli la pacificazione dell'area (Trump dixit). Quantomeno discutibile.

Per tornare a Breitbart: la sua attività nell’ambito dei Tea Party - l’organizzazione “dal basso” della destra populista e radicale americana - aveva avuto nel frattempo un forte impulso, fino a diventare uno dei maggiori speaker alla National Tea Party Convention del 2010; tutto lasciava prevedere una folgorante carriera politica quando improvvisamente è stato stroncato da un infarto nel febbraio del 2012 a soli 43 anni.

Alla guida del Breitbart News si trovò quindi l’ex presidente esecutivo del sito, Steve Bannon, l'attuale stratega di Trump, che ne aveva già guidato il progressivo allineamento con i movimenti populisti della destra europea e americana, fino a dichiarare che il Breitbart News era la “piattaforma della alt-right”. Cioè il megafono di tutto quello che nella società si muoveva a destra - anche molto a destra - del Partito Repubblicano.

La alt-right è quindi un movimento composito, dove sono attive varie e diverse sigle di un mondo che, riassumendo, è quello del suprematismo bianco, maschile, cristiano (ma anche con insospettate aperture alla "diversità" LGBT in salsa repubblicana).

Ci si trova chi ritiene che i bianchi stiano subendo un vero e proprio genocidio da parte dei neri, chi è contro i movimenti femministi, ci sono integralisti cristiani antiabortisti e omofobi, nostalgici dell'America rurale e anticapitalista dei Southern Agrarians, fino all’ampio spettro dei movimenti contro gli immigrati latini o musulmani. E i veri e propri neonazisti.

Perché se vai molto a destra prima o poi i nazisti li trovi.

Come i membri del Right Stuff, di Richard Spencer, un antisemita dichiarato, immortalati a braccio teso in un video diventato virale dopo la vittoria di Trump. O come il Daily Stormer (un omaggio al foglio nazista e antisemita Der Stürmer, pubblicato in Germania dal 1923 alla fine della guerra) fondato da Andrew Anglin, che da visibilità - ad esempio - a David Duke, ex gran maestro dei Cavalieri del Ku Klux Klan. O che esalta Adolf Hitler, “l’uomo che sfidò le banche” o, ancora, che pubblica un’interessante intervista a Alex Linder, un vero esaltato neonazista, definito dall'intervistatore la prima persona che abbia mai sentito “chiedere esplicitamente lo sterminio degli ebrei”.

Dopo aver incassato la vittoria di Donald Trump, uomo delle sette meraviglie, con figlia convertita all’ebraismo e sposa felice dell’uomo chiamato a pacificare finalmente israeliani e palestinesi, con un vicepresidente cristiano fondamentalista e dichiaratamente antiabortista, con un consigliere come il Bannon di Breitbart News e a capo del Tesoro un uomo di Goldman Sachs (alla faccia del populismo proletario che ha caratterizzato la sua campagna), il risultato, piuttosto scontato per chi abbia conservato un minimo di testa sulle spalle, è che oggi si cominciano a intravedere le prime crepe nello schieramento multiforme e variegato dell'estrema destra USA. 

Proprio i neonazisti di The Daily Stormer hanno dato fuoco alle polveri chiamando gli accoliti ad una Crociata contro una delle figure più ambigue e irritanti della alt-right, il trasformista Milo Yiannopoulos, eclettico associato di Breitbart News e vero e proprio squalo della comunicazione, capace di azzannare tutto e tutti lasciando solo qualche osso ben spolpato al suo passaggio.

Oltre a prendere a morsi qualsiasi cosa abbia anche un vago sentore di “sinistra” o di “political correctness” - "il femminismo è un cancro" o "la giustizia sociale è un cancro" eccetera - l’altro obiettivo preferito dei suoi strali durante l’ultima campagna è stata la destra moderata, definita “cuckservative”, un neologismo che coniuga “conservatore” con cuckhold, il termine "elegante" usato per indicare i flaccidi (avete capito bene) mariti bianchi che amano osservare le mogli penetrate da giovanottoni neri di passaggio.

La sua colpa - oltre a quella di essere aggressivamente gay (ma di un celodurismo degno del passato in camicia bruna alla Ernst Röhm) - è di avere origini britanniche mezzo greche, ma anche, benché sia dichiaratamente un cattolico praticante, ebraiche da parte di madre.

Mal gliene incolse perché non appena acchiappata la vittoria elettorale (salvo recount) i suoi compagni di strada lo hanno messo subito nel mirino. Per loro è diventato “il peggior nemico”.

Ed essere nel mirino di chi si esalta di brutto con le imprese belliche delle SS è una posizione piuttosto scomoda se il titolo è "soluzione finale per il problema Milo".

In questa poco profumata frangia minoritaria della destra ebraica americana si comincia a respirare l’aria di storie già viste. Come quella di Ettore Ovazza, l’ebreo torinese, entusiasta camicia nera della prima ora, fondatore del periodico La Nostra Bandiera, marciatore su Roma nel 1922, ridotto in mutande nel 1938 con l’emanazione delle leggi razziali e assassinato con tutta la famiglia nel 1943. Infine infilato brutalmente in una stufa dalle SS che lo avevano catturato.

Sicuramente Milo Yiannopoulos non farà la fine orribile di Ettore Ovazza, ma la morale della favola appare sufficientemente chiara: se vai con i nazifascisti (vecchi o nuovi) prima o poi ti presentano il conto.

Anche se hai marciato insieme a loro su Roma (o Washington).

 

 




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