lunedì 14 settembre 2015 - Gennaro Carotenuto

Dal Guatemala che abbatte il presidente corrotto: un altro Centroamerica è possibile

Giudici coraggiosi, supportati da un enorme movimento popolare come in Spagna chiamato degli “indignados”, hanno prodotto la caduta nella polvere del potentissimo Otto Pérez Molina, fino alla settimana scorsa presidente del Guatemala, il più popoloso e importante paese del Centroamerica.

Generale in pensione dei terribili kaibiles (i corpi d’elite guatemaltechi, oggi spesso sicari o narco), già colpevole di crimini contro l’umanità e massacri di comunità indigene durante il genocidio, questi si rappresentava fino a ieri come il leader incorruttibile della destra dalla “mano dura” – lo stesso slogan del suo “Partito patriota” ridisegnava da destra un pugno chiuso -, tutta legge e ordine, e voleva la pena di morte in un paese violento e corrotto, dove il potere del narco è paragonabile al Messico.
Solo parole, il vertice della corruzione in Guatemala, come dimostra il caso “La Línea”, era lo stesso presidente della Repubblica che, insieme alla vicepresidente Baldetti in carcere già da maggio, esigeva tangenti di milioni di dollari per lasciar evadere il fisco alle maggiori imprese del paese.

Pérez Molina ha passato la notte nel carcere di Matamoros, dopo essersi già dimesso, e aver eluso per ore le domande del giudice Gálvez ed essersi proclamato innocente in un’udienza pubblica che ha catalizzato un intero paese.

Al suo posto ha giurato come presidente ad interim Alejandro Maldonado, un vecchio arnese di tutti i regimi militari. Gestirà la transizione ma null’altro. Quel che conta è che Pérez Molina è un uomo finito, dopo che da aprile ad oggi un popolo intero (ignorato dalla grande informazione così attenta alle opposizioni di destra nei paesi integrazionisti come Brasile e Venezuela) non ha mai smesso di manifestare fino alla caduta di un governo fatto di soci in affari sporchi dello stesso presidente.

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E’ un enorme movimento, che ha preso il nome di “indignados” come quello degli spagnoli del 2011, in grado di passare agilmente dalle reti sociali alle piazze. Con #RenunciaYA ha dimostrato che nel XXI secolo, anche in un paese dalla democrazia fragile come il Guatemala, non solo non sono possibili soluzioni autoritarie, ma che un governo impresentabile possa essere abbattuto dal basso e si possa esigere una profonda riforma della politica e dello Stato. Soprattutto è un movimento che, in una società come quella guatemalteca dove il dissenso è stato sempre criminalizzato e represso con la violenza più brutale, era necessario, ma anche finalmente possibile scendere in piazza, esprimersi, militare a testa alta.

Non è solo il Guatemala ma è tutto il Centroamerica ad assistere a una rinnovata forza dei movimenti sociali contro governi che rappresentano ancora solo le oligarchie e i loro interessi, come storicamente è accaduto in tutta la regione con poche eccezioni, quali proprio quella di Arbenz nel 1954, rovesciato da un golpe orchestrato dagli USA. Il prossimo sotto mira è Juan Orlando Hernández in Honduras, altrettanto impresentabile come Otto, e i movimenti nati dopo il golpe del 2009 contro Mel Zelaya, sono in piazza da settimane esigendone le dimissioni. Un altro Centroamerica, una regione rimasta parzialmente estranea alla svolta progressista dell’America latina degli ultimi tre lustri, è possibile.

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Celebrata la caduta di Otto, va detto che il futuro politico del Guatemala è avvolto nella nebbia. Lo scorso 6 settembre, per volontà del regime di impedire una dialettica del cambio e disinnescare la partecipazione, si celebra in tutta fretta il primo turno di elezioni presidenziali con un gran numero di candidati coinvolti nel regime stesso, in casi di corruzione e di riciclaggio. Per settimane, senza riuscirci, i movimenti hanno chiesto il rinvio delle elezioni, alle quali arrivano senza una strategia precisa. L’emotività per quanto accaduto in queste ore rende carta straccia tutti i sondaggi che vedevano in testa uno dei tanti candidati di destra, Manuel Baldizón. L’unica certezza, nel timore di violenze, è che ci sarà un ballottaggio. La carta elettorale è l’ultima nelle mani dell’oligarchia, ma è potentissima.




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