lunedì 19 dicembre 2016 - Gennaro Carotenuto

Come in Siria. Dieci anni di guerra civile occultata in Messico

A dieci anni dall’inizio della cosiddetta “guerra al narcotraffico” in Messico l’INEGI, l’ISTAT messicana, dà i numeri. Sono numeri sgonfiati almeno di un 20-30% di quelli reali, ma non per questo sono meno terrorizzanti. 

Escludendo il 2016, quindi in nove anni, i morti ammazzati sono 186.000 (proporzionalmente suddivisi tra i sei anni di Felipe Calderón e tre di Peña Nieto) e 30.000 solo i desaparecidos ufficialmente riconosciuti come tali. E’ un numero comparabile a quello della guerra civile in Siria, che a seconda delle fonti ha causato tra i 250 e i 450.000 morti. E’ un numero che include civili, donne, bambini, e che ha causato centinaia di migliaia di profughi.

In mezzo a questa carneficina gli arrestati (non i condannati) sono meno di 11.000, dei quali un migliaio considerati “capi”, per i quali vengono organizzati show mediatici come se ogni volta fosse il trionfo del bene sul male. Per ogni presunto criminale incarcerato ve ne sono altri 17 sterminati, morti ammazzati sia dai cartelli ma per la maggior parte dalle “forze dell’ordine”, da un esercito e da corpi di polizia che sparano a mansalva, sequestrano, torturano, taglieggiano, stuprano, e ovviamente trafficano droga come un cartello qualsiasi.

Sono morti che di sicuro non saranno mai interrogati da un giudice, che non potranno confessare e quindi dire cose scomode. Sono quasi sempre pesci piccoli, se non innocenti, o addirittura esponenti dei movimenti, giovani messicani nati nel luogo sbagliato e nella classe sbagliata, figli di un modello di industrializzazione fallito e nel quale il narcotraffico è solo il modello imprenditoriale più estremo nell’instaurare rapporti di produzione neoliberali.

E’ una guerra voluta fin dall’inizio dal governo Calderón (per molti illegittimo con le sinistre di Andrés Manuel López Obrador che denunciavano gravi brogli) sul modello della guerra al terrorismo dell’allora presidente USA George Bush e continuato da quello Peña Nieto senza alcuna rivalutazione di quello che era già dai primi mesi un disastro totale. Come per la guerra al terrorismo in Medio Oriente, anche in Messico (e in Centro America) dieci anni di guerra al narco hanno solo peggiorato la situazione. Il Messico continua a mettere il sangue e gli USA -dove finiscono il 90% dei profitti- i consumatori. Senza un vero dibattito pubblico a livello regionale nordamericano nessuna politica di riduzione del danno è stata instaurata -nonostante la legalizzazione sia ormai l’unica possibilità- preferendo la guerra, una guerra che è una triste finzione perché nessuno tra chi muove i fili è interessato a farla finire e la narcopolitica si è fatta Stato. Il lucro faraonico, ma niente affatto redistribuito, garantito dalla droga oramai inquina tutto, l’economia, la società, la vita politica e il sistema democratico; la logica del mercato, tanto più in un mercato criminale, non lascia scappatoie.

Al momento in Messico opererebbero nove cartelli. Più di prima, più della fine del decennio scorso quando Sinaloa sembrava destinata a dominare. Tuttavia in questi anni, gongola la Procura Generale della Repubblica, ben 95 dei cento più importanti narcotrafficanti sarebbero stati catturati o “abbattuti”, secondo il linguaggio venatorio utilizzato. Dei narco storici, con il Chapo Guzmán protagonista di due rocambolesche fughe e altrettanti arresti, mancano solo “El Mayo” Zambada di Sinaloa e “El Mencho”, del cartello dello stato di Jalisco.

Chi scrive non è riuscito a capire, o forse non viene detto, quanti degli 11.000 arrestati siano stati materialmente processati e condannati; sicuramente una minoranza. E i pochi condannati quasi sempre sono personaggi secondari, pesci piccoli, povera gente per essere franchi, quasi sempre condannati a pene smisurate di decine di anni, caricando sulle loro spalle anche colpe di eccellenti da proteggere. Le zone calde si stanno mantenendo costanti: il Chihuahua con la sua città perduta, Ciudad Juárez; la Bassa California e il Nuovo León. Monterrey, la Milano del Messico, motore industriale e tecnologico, peggiora costantemente. Tijuana, la metà Sud della conurbazione che condivide con San Diego, sa già che il 2016 sarà l’anno più violento della sua storia. La popolazione intera di grandi città un tempo vivaci culturalmente ed economicamente è stretta in una morsa, tra il potere del narco, il terrorismo dello Stato e il fuggire.

E sta arrivando Donald Trump.

(Fonte principale: Reporte Indigo)




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