martedì 31 maggio 2016 - Doriana Goracci

Avere un Angelo Bruno per Amico (già non mi sembra poi così poco)

Riporto due commenti, di amici di sesso maschile su Facebook, dopo la tragica fine di Sara Di Pietrantonio, di cui ho scritto e avevo sollecitato i loro interventi: sono stati pochissimi a farlo e centinaia le condivisioni femminili. Merita dunque che questo silenzio sia spezzato da alcune parole che condivido con tutti e tutte, come fossero panni stesi al sole, che hanno necessità di luce e cura.Grazie e spero che si alzi il vento.
Doriana Goracci

Bruno Zanin: "Mamma mia come è possibile che noi uomini perdiamo così la testa perché siamo stati abbandonati da una donna perdiamo la testa al punto di uccidere ciò che è stata la Nostra felicità? Penso ai genitori di lei figlia unica, alla madre che per prima ha trovato il corpo della figlia ancora in fiamme, il dolore devastante, la disperazione di queste persone come anche i genitori di lui che si rendono conto di aver messo al mondo un mostro, no non si uccide ciò che si ama, come dice Jean Genet in Querelle di Brest".
Angelo Gandolfi: "Cara Doriana, non so se hai visto ieri sera 'L'ingorgo. Una storia impossibile' di Luigi Comencini su RaiStoria. Una delle sequenze emblematiche di quel film mi pare proprio quella in cui un gruppo di giovani violentano una ragazza e gli occupanti dell'automobile dietro al furgone in cui avviene lo stupro trasformano l'occasione in una situazione di voyeurismo. Nemmeno per un attimo pensano a una possibile solidarietà con la vittima. 'L'ingorgo' è un film del 1978, ma forse ci può spiegare quello che accade nel 2016. Quello che scrive Roberto mi sembra solo un'espressione di disperata impotenza. Ma ho l'impressione che egli non sembri pensare che fare a pezzi gli assassini genererebbe altro dolore nei confronti dei parenti di costoro, che magari potrebbero già viversi le difficoltà che avere dei congiunti capaci di tanto possono creare. E poi, quanto a in pubblico, grazie al cielo siamo in Italia, non in una delle monarchie del Golfo. Invece rimango convinto che occorra innanzitutto rendere chi ha commesso un atto così orribile consapevole di quello che ha fatto. Consapevole fino in fondo perché solo allora può maturare il senso di responsabilità da cui possono prendere avvio conseguenze positive. E, nel momento in cui matura questo senso di responsabilità, la cosa migliore mi sembra il risarcimento, che ovviamente non significa monetizzazione, ma fare qualcosa di giusto per riparare a un'ingiustizia. E, se non si trova il modo di fare un qualcosa di giusto nei confronti delle vittime, farlo nei confronti della collettività. Penso in questo caso alla povera Paula Cooper che, finché ce l'ha fatta girava per le scuole dei ghetti raccontando agli alunni afroamericani e ispanici la sua storia. Molto spesso le famiglie che si trovano a dover affrontare questo dolore trovano nella motivazione "per cui questo non debba più accadere" una ragione che li aiuta a sopportare questa sofferenza e non rinchiudersi in inutili e devastanti rancori e sono in grado di dare l'esempio e fare la differenza rispetto alla tentazione della vendetta che si ripete in queste situazioni, frutto del tentativo di reagire alla sensazione di impotenza. In questi casi, pensando che c'è chi riesce a "fare la differenza" mi viene sempre in mente l'Annina. Anzi, mi verrebbe voglia di andare a scartabellare per trovare gli articoli sulla sua storia. Negli anni Settanta aveva fatto scalpore in città. Una vita passata in "buttega", una macelleria ovina, conosciuta da tutti, sempre vestita di nero, ad aiutare prima il marito e poi i figli. Prima a far pacchetti con il marito dietro al banco, poi, con gli anni alla cassa. E prima e dopo occuparsi della casa e del pranzo e della cena per gli uomini di casa. Non aveva avuto la possibilità di studiare, faceva i conti a mano e ti dava "a risevua" (gli scontrini non esistevano ancora e nemmeno il registratore di cassa). Forse poteva pesare 60 kg, alta poco più di 1 m e mezzo. Sempre sorridente, parlava poco l'italiano, anche con i "foresti". "Tantu me capiscian 'u mesgimu" (tanto mi capiscono lo stesso) diceva con la sua profonda umanità. Ridotta in fin di vita con un'accetta da un giovane maghrebino un triste giorno. Con articoli in prima pagina sui giornali cittadini. L'Annina era una donna di fede, tutti i giorni andava a messa, ma non era una bigotta. Quando ha saputo dall'avvocato che ci sarebbe stato il processo e che il giovane sarebbe stato accusato di tentato omicidio, contro la volontà di tutti, quasi come in una ribellione, ha deciso di presentarsi e, nella lingua che conosceva meglio, ha detto ai giudici "Sun segua ch'u nu me vueiva ammassaa" (sono sicura che non mi voleva ammazzare) riuscendo a ottenere per il ragazzo la semiinfermità mentale. Dopo di che gli si è avvicinata e gli ha detto, con la sua semplicità, "Ma ti nu faalu ciù". Nessuno in città ha avuto il coraggio di criticarla per il suo gesto, nemmeno i più forcaioli dei cronisti di "nera". Certo occorre molto equilibrio e molta umiltà, ma penso che Tina, proprio perché madre, sia in grado di rendersi conto che l'unica cosa che può fare per Sara è condividere il suo dolore e non chiudersi nella sua sofferenza. Forse sapere che non è sola in questo potrà in qualche modo aiutarla. Quello che possiamo fare noi uomini è la cosa più difficile di questo mondo: imparare a starci, a renderci conto che c'è spazio per tutti e mettere da parte ogni tentazione di potere, di supremazia, di egemonia, di voler vedere gli altri fare quello che vogliamo o addirittura di pensare gli e le altre in funzione dei nostri bisogni. Imparare a metterci nei panni degli altri, a provare a pensare che cosa faremmo se ci trovassimo nelle loro situazioni, a non giudicare almeno fino a che non conosciamo le motivazioni che spingono gli e le altre a commettere le azioni, a rispettare le donne e la loro autodeterminazione, specialmente in quei campi in cui è assegnato loro un ruolo specifico (per es. dare la vita a nuove creature) e non solo questo, ma già non mi sembra poi così poco"




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